A luci spente, le celebrazioni del 25 aprile inducono ad alcune considerazioni di varia natura. Sgombriamo il campo dalla retorica che inevitabilmente contraddistingue queste giornate : cerimonie ufficiali e persino giornali e TV grondano di enfasi e abusano di parole roboanti, nell’esaltazione di radici recenti e nel persistente ignorare quelle passate.
Come ogni anno, ovviamente, non mancano le voci del dissenso, ma sono confinate su testate minori e comunque additate alla pubblica disapprovazione, al punto da indurre gli esponenti del “diverso parere” – ad esempio nei talk show politici – ad una sorta di autocensura e soprattutto a caute messe a punto su certi connotati storici della resistenza: scarsa partecipazione popolare, peso determinante, nella celebrata liberazione, delle truppe alleate, egemonia, nella resistenza stessa, della componente stalinista e rinnovata elencazione dei crimini di quest’ultima, anche a guerra finita. Tutto vero.
Ancora una volta però, pur nelle più disparate sottolineature del carattere divisivo di questa “festa”, sono mancate considerazioni scomode, ma pertinenti. Certo, è stato detto che si sarebbero potute scegliere altre date, per celebrare l’unità nazionale, come il 4 novembre e perfino il 2 giugno; ancora oggi, pur nella diffusa ignoranza – specie fra i giovani – del significato, dei presupposti, delle conseguenze di quel 25 aprile, non si può negare che esso rappresenta la conclusione di una guerra civile non meno che la liberazione da un occupante straniero (di cui si continua a trascurare che all’occupazione fu “costretto” dal tradimento perpetrato dalla monarchia sabauda). L’Italia appare così come l’unico paese che camuffa la vittoria in una guerra civile da vittoria di tutti; se pensiamo alle feste nazionali di paesi come gli Stati Uniti o la Romania, quelle date celebrano giornate non solo di vittoria, ma di unificazione e di indipendenza da forze esterne…
Del resto, solo di recente – ad esempio nelle dichiarazioni del presidente della Camera Violante – è stata riconosciuta pari dignità ai combattenti italiani delle due parti, entrambe, nelle intenzioni, pronte a riscattare l’onore della Patria. Per inciso, un giorno forse qualcuno spiegherà i motivi dell’odierno incrudelì entro, specie mediatico, visto che nei decenni passati non si ricordano celebrazioni altrettanto divisive.
Il fatto è che questo 25 aprile riporta alla ribalta, ora in maniera grottesca, ora in maniera drammatica, la persistenza di due conflittuali visioni del mondo nella nostra Italia, e non solo. Naturalmente, ci riferiamo sempre a minoranze, da una parte e dall’altra, come si è sempre verificato nella storia,e non è un caso che vi siano giovani iscritti all’ANPI e altri militanti in formazioni che al fascismo si richiamano orgogliosamente.
Si avverte allora l’esigenza di un lavoro metapolitico – a partire dalle scuole – tale da mettere in luce le linee di continuità nella politica e nel costume del paese e delle generazioni che si sono susseguite, evitando, su entrambi i fronti, di continuare a contrapporre i fratelli Cervi ai fratelli Govoni. Questo lavoro, a partire dall’opera meritoria di storici come Renzo De Felice, dovrebbe fra l’altro sottolineare gli aspetti storici e dunque contingenti e irripetibili sia del fascismo che del comunismo, prendendo atto della manifesta crisi della democrazia e delle sue cause e delle mutate forme assunte dalla guerra e dal razzismo, specie nella nostra area geo-culturale (le politiche giugulatorie dell’Unione Europea hanno causato e causeranno in Grecia più morti dell’occupazione tedesca e italiana nell’ultimo conflitto mondiale).
Continuare a vedere tutto il Male da una parte e il Bene dall’altra non giova al presente e soprattutto al futuro di questo paese è dell’Europa stessa; ne’ si risolvono o si eliminano le contrapposizioni pretendendo autodafé e capi cosparsi di cenere per gli errori e gli orrori dei padri.
Ci sarà qualcuno, fra politici, intellettuali, maestri, in grado di assolvere questo compito? Una volta di più, conviene assumere l’abito dell’ottimismo della volontà, mettendo in secondo piano il pessimismo della ragione.