Maravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn’ora.
Com’om che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo,
che ’nfra lo core meo
porto la tua figura.
(Giacomo da Lentini)
Compiti per casa: scrivi una recensione per “Maravigliosamente. Amore. Vita. Politica.” di Anna Valerio, recente pubblicazione per le Edizioni di Ar.
Difficile, dictu et factu, già nell’inquadramento del genere: Maravigliosamente non è un romanzo, non è un saggio, non un diario né un epistolario; non autobiografia né raccolta di versi, non è nemmeno un trattatello scientifico… o forse è tutto questo insieme? E poi: come si fa a recensire chi a sua volta recensisce la bellezza?
La metafora scolastica non è casuale, l’autrice esordisce proprio così, ricordando i testi da leggere suggeritile al liceo dall’insegnante: «Ricordo lo spaesamento della quarta ginnasio. La professoressa che consigliava i libri, i classici da scuola. Li prendevi in mano e li trovavi di una noia impossibile». Così (r)accoglie chiavi di lettura alternative per scrittori noti, mentre riporta i meno noti alla luce, archeologa intenta a grattare la terra per estrarne tesori dimenticati; si occupa anche dei proscritti, gli imperdonabili. Due su tutti, Cristina Campo e Antonia Pozzi: l’una essendo «un’atomica che scoppia nel Novecento che sta stancamente smettendo di fare filosofia. Cristina Campo è tutti i superlativi che un pensiero fatto scrittura si possa meritare», l’altra «a diciassette anni era già compiutamente poetessa, amava già da un anno senza trucchi, voglio dire vesti, ricambiata, il proprio professore di latino e greco del liceo, e scriveva cose imperdonabili».
Del resto in casa Ar far scalpore è tradizione. Una simpatica réclame potrebbe recitare “Edizioni di Ar: pubblichiamo scandalo dal 1963”. Non foss’altro che il primo testo scaturito dagli ARistocratici torchi fu il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, ancor oggi stampato, insieme ad una miriade di altri libri, “maledetti” dall’inquisizione democratica e politicamente corretta. Un’intera collana è dedicata poi alla schietta (e anche alla schiatta), originaria tradizione spirituale europea (a scanso di equivoci: Paganitas), un’altra all’erotismo, e una ancora al cosiddetto revisionismo storico.
E Anna fa scandalo nello scandalo, ma può permetterselo, da persona schiettamente libera.
Strizza l’occhio alle femministe, ma con la grazia e il raziocinio che la contraddistinguono, niente exploit volgari e uterini. A proposito delle molestie sul posto di lavoro – tutti ricorderanno le dichiarazioni di Asia Argento e una sfilza di altre attricette, che daranno l’avvio al movimento cosiddetto “me too” – candidamente ammette: «Ricordo che feci il gran rifiuto. Perché il ricatto, l’aggressione subdola, ti toglie il fiato piano piano e all’improvviso ti accorgi che stai pendendo da una corda. Prende la realtà e comincia ad alterarla, a metterti il sospetto che sia solo un capriccio, un punto di vista. E invece no: la realtà è una, e se vuoi stare bene con te stesso devi stare bene con la realtà. La realtà è che se sei bravo è giusto che lavori; non se sei compiacente, non se ti lasci abbracciare più a lungo del giusto, non se esci a “cena”, non se accetti un “caffè” […] Ecco: a diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, ho scoperto un mondo senza grazia. Senza onore. Senza dignità. Se il gioco diventava lavoro, il lavoro allora diventava un gioco senza regole. Eh, beh, sono fuggita. Ho tagliato tutti i ponti, spento il telefonino per mesi, finché la lista delle chiamate senza risposta si era mangiata da sola. Via da quella violenza dissimulata in carezze e baci e abbracci: non quella di chi ti fa il male, ma quella angosciosa, infame, di chi può toglierti il bene. Certo, il male che mi è toccato dopo come ‘castigo’ della società per le mie scelte è stato infinitamente più cattivo».
Tra gli oggetti dei suoi “esercizi di ammirazione” figurano anche pagine di autori che non ci aspetteremmo, che di primo acchito paiono ideologicamente lontani dall’ispirazione di fondo di casa Ar e dell’area in cui normalmente essa si muove; per esempio il Moresco, definito «solo fuoco, fuoco che nemmeno le lacrime sanno spegnere, fuoco di grande scrittura, di grande visione, di grande previsione, di grande ribellione»; e Manuel Scorza, che «non è la lagna di Pasolini cui siamo abituati noi, imprigionati nella nebbia che ci produciamo da soli». Onestà intellettuale? Non solo. È che, parafrasando Brasillach, “Bellezza e maraviglia non sono soggette a processo”.
Sciascia, Leopardi, Pennacchi, Bacchelli, Verga. Una menzione speciale per Gómez Dávila, questo ritroso pensatore colombiano, indicato da qualcuno come il massimo filosofo del Novecento: «L’aggettivo ‘illuminante’ è ormai logoro; eppure non ce n’è di più adatti a descrivere questo fare filosofia alla maniera dei presocratici, per baleni, che svela tutte le dinamiche e gli ingredienti dell’ “inganno consueto”».
Si esercita poi a definire, molto poeticamente, la poesia: «Poesia è forse il grado massimo dell’intelligenza – ma di un’intelligenza che si è scordata le ragioni dell’utile, la forza di gravità, piena di naturale seduzione, del profitto. Sorpreso dallo sguardo del poeta, il tempo-catena di minuti si sfalda e diventa stagione, o paesaggio animato dalle baudelairiane “corrispondenze”, o perfino estinzione, sudore di neve, tra vita e quell’attimo di estremo premere e definirsi della vita che precede la morte […] O voce che sveglia il mondo dal tempo […] O respiro-sospiro di quando l’individuo è così magro di tempo da potersi nutrire di ogni incanto […] Poesia è trovare il mistero dietro i contorni solidi delle cose, è cantare il mistero, è cantare perché la voce sia mistero, la parola mistero, inafferrabile eppure molto più luminosamente vera dell’asfalto su cui scorrono le miriadi di pneumatici della realtà che ha fretta e solo una fame bruta».
Insomma, scrittrice raffinata e animo sensibile, la Valerio; amante del bello, friulana d’origine, studi classici alle spalle. Tutte queste cose si riflettono cristalline nell’opera, che è costellata di rimandi alla sua terra, è intrisa di classicismo, e sopra tutto è un inno alla bellezza, alla riscoperta della meraviglia. Un’opera delicata e potente allo stesso tempo. Anna parla e si descrive in essa, si ritrova, attraverso le proprie parole, attraverso quelle degli autori ammirati. La divinità che l’accompagna è la Grazia, la Charis ellenica – Anna: nomen omen – e infatti sembra uscita da un Botticelli, bellissima, leggiadra, candida, boreale. Una così non poteva certo lasciarsi entusiasmare troppo da un Salvini qualunque – sì, Anna la graziosa scende dal suo olimpo di maraviglie per occuparsi anche cose terrene: «Salvini, hai sbagliato […] ricordati che le ruspe, da sole, non vanno avanti. Ci vuole un tizio sopra che le manovri dotato di cervello». Dalla terra, riflessioni sui casi di cronaca nera di Vasto e Lavagna, e sull’abominio dell’utero in affitto (N.B. per i lettori politicamente corretti: che si voglia chiamarla “maternità surrogata” o “gestazione per altri”, resta la sostanza: un abominio) raggiungono vette meta-fisiche: «Tutti i miei figli, finora, somigliano a chi ero io mentre li avevo nella pancia […] di fronte alla certezza che un feto è impastato di pensieri e sentimenti quanto di vitamine e volute del dna, immaginate quale risposta politica si possa dare a proposte indecenti quali l’utero in affitto, negazione del rischioso, eroico, teurgico splendore della generazione. Resa al capriccio ‘isterico’ che si finge umano».
Ha qualcosa di didascalico questo libro, un insegnamento sotteso: se non leggi (cose belle) non puoi scrivere (cose belle), non basta il talento naturale (ammesso che ci sia). Per essere ammirati bisogna saper ammirare: tanto “esercizio”, in una grande palestra letteraria. Una lezione di umiltà? No, Anna e i suoi libri – quelli che legge e quelli che scrive – non sono affatto umili, sono fieri aristocratici, superbi. Nella sua ginnastica intellettuale sembriamo piuttosto ravvisare l’insegnamento delfico “conosci te stesso (nulla di troppo)”. Al proliferare di scrittori, case editrici, giornalisti, perfino ricercatori “indipendenti”, potremmo opporre: attenzione, se non siete capaci di stupore davanti al maraviglioso – che sia il chiaro di luna, le membra dell’amato o un verso di Pindaro – non potete esserne testimoni, né creatori.
Sembra di sentire la maestra Assuntina, la mia insegnante di italiano alle elementari, severa, arcigna, conscia del suo rango – non certo la maestrina-chioccia che a sette, otto anni, ancora ti viene a soffiare il nasino col suo fazzoletto: “Leggete, leggete tantissimo! Non guardate la TV, ché vi diventa la testa quadrata, leggete invece, ché imparate a scrivere”. Eh, stavo nella sua sezione mica per caso, di lei mia madre diceva: “è una brava, è laureata, non è come le altre, è una persona colta”. Era brava sì, la maestra Assuntina, il nocciolo duro della lingua e della letterarietà italiana lo appresi per l’appunto alle elementari. Oggi in Anna Valerio ritrovo qualcosa della mia vecchia insegnante, entrambe mi costringono a misurarmi con uno straordinario Giovanni Verga, scrittore del Vero per eccellenza: «Quello che succede con l’arrivo di questa libertà tanto celebrata mette i brividi. È lo scatenamento di ogni bestialità. È la soppressione di ogni decenza. È cattiveria della più spietata […] È quasi un ritorno alle saggezze della tragedia greca, l’unico tribunale che, in fondo, possa assumersi il compito di giudicare l’uomo […] Il Male è diventato un cliché, non più l’ingresso nel labirinto del tragico. Il biondo è sempre un’idea cattiva, quando Verga ci mostra quanto profondamente vittima può essere quel figlio biondo del notaio, lampo di luce nella cupezza estrema della narrazione».
Ce n’è molta altra di roba meravigliosa dentro questo lavoro e fuori da esso, la Valerio indica una via, fa metodo: «Ci saranno da ammirare» – raccomanda – «prima o dopo, tutte le pagine più abrasivamente vere, le pagine ‘petrose’ della nostra letteratura».
Dunque, compiti per casa: esercizio di ammirazione, leggete Maravigliosamente.