Si firmava Frater Fredericus. Passeggiava in solitudine tra le colline. Come un contadino. Giovane bismarckiano nel 1866, poi soldato disilluso. La sua patria infondo era un mito, una canzone prussiana, un istinto morale scritto tra i versi di Goethe. Con queste immagini ritorna il bisogno di bagnarsi nelle acque di Federico Nietzsche. Tanti giovani si avvicinano al filosofo attraverso studi schematici; è il destino della cultura scolastica far studiare filosofi e poeti a colpi di nozionismo. Poi, per alcuni prof, basta spiegare l’Oltre-uomo in salsa dannunziana e la lezione sul filosofo è terminata. Se pure consideriamo che, ai docenti del conformismo scolastico, Nietzsche non sta simpatico, allora, le lezioni nicciane diventano esercizi intellettuali standard. Ma, cari professori, se desiderate lezioni post-ideologiche, date invece voce a Daniel Halèvy, al suo libro ‘Nietzsche’, una biografia ristampata da Oaks editrice, un gioiello che tiene insieme vita e idee del grande pensatore.
C’è il diario del giovane Federico, il post-romanticismo che gli faceva scrivere: dal dolore nasce la bellezza. Poche frasi ed ecco la sua sfiducia nei massimi sistemi all’epoca della verità finita e del “sistema di equilibrio europeo” andato a pezzi; e c’è così un Nietzsche da rileggere come punto di riflessione sorprendente.
Halévy racconta tutto: gli smarrimenti della mente del filosofo; il suo congedo dall’università; l’amico Wagner ormai lontano. Poi i viaggi, la costa sorrentina e il mito mediterraneo. Federico, in Italia, non si sentiva uno straniero e l’arte latina lo liberava dalla modernità. Nei suoi giorni italiani Nietzsche scriveva le regole per un’esistenza disillusa, “Non devi né amare né odiare il popolo. Non devi occuparti di politica. Non devi essere né ricco né bisognoso.” Sono parole che ci hanno ispirato quando sapevamo che parlare, in nome del popolo, era demagogia; quando avvertivamo che i soldi svanivano dinanzi alla ricchezza illimitata dell’arte.
Conoscere Nietzsche o meglio imparare ancora dalla sua anima. Le lettere del 1872 dicono che lo scetticismo è obbligo negli anni dell’imborghesimento e delle aride ideologie; perciò “il bello e il sublime, unico mezzo di salvezza contro il socialismo.” Quell’anima, insoddisfatta e anti-moderna, bramava: chiedeva “un centinaio di uomini educati contro le idee moderne”, ossia pensava a quei pochi – che sarebbero chiamati oggi avanguardia morale – che avevano “partorito sulle spalle il Rinascimento.”
La narrazione di Halévy sfuma in quella di Federico al modo del discorso indiretto libero, tanto che il lettore si domanda: Chi scrive Halèvy o scrive Nietzsche? In questo senso rimane valida la tesi per la quale scrivere una biografia vuol dire trasformarsi nel biografato; e lo storico Halévy si trasforma in coscienza nicciana per custodire le tenerezze di Federico o le passeggiate alpine dello scrittore di ‘Aurora’. Per tutto questo, il ritratto biografico conserva la purezza del sapiente che cercò una “filosofia del mattino” da intendere come ripartenza dopo la bufera nichilista.
Piace pensare che vi sia come un istinto new age tra le lettere del filosofo. Piace però scrivere che vita e pensiero nicciano sono anarchia spirituale. Hegel e Marx sono defunti per il grande “nomade della metafisica” occidentale: il nomade che amò la città più metafisica, Venezia, città instabile, città leggera, città anti-moderna. Forse adesso egli consiglierebbe: Uomo, fermati! Non sia la vita solo consumo e liquidità post-moderna!
Ha poi ragione Marcello Veneziani quando, nel suo ultimo libro, rammenta che, con il filosofo di Sils Maria, non dobbiamo seguire le orme del dubbio di Freud e Marx; piuttosto, con lui, dobbiamo ritrovare “due complici visitatori dell’inferno: DostoevsKij e Rimbaud.” Il pensiero di Nietzsche dunque coincide con l’intensità del suo viaggio esistenziale. Con le sue richieste quotidiane di leggerezza e musica – “vivere senza musica, che assurdità!” – , in un voler rimanere fedeli a se stessi e saper pure tornare indietro; in quanto l’umanità andò fatalmente avanti nella belle èpoque, come corre dannatamente in avanti negli anni del web.
Le osservazioni di Halèvy inoltre non tendono a ricapitolare le categorie filosofiche nicciane. Proprio Gianni Vattimo insegnava di non legarsi alle categorie del filosofo, perché sistemate, con i frammenti postumi, dalla sorella Elisabetta, donna politicamente compromessa, la quale regalò “il bastone del viandante solitario” a Adolfo Hitler, “l’uomo delle folle.”
Infine, la biografia di Halévy cerca, nelle parole di Zarathustra, la voglia di ridere della perfezione vantata dai mediocri: quelli che hanno giustezze da rifilare a tutti o hanno azioni buone da distribuire ma solo per l’utile personale. E questo testo riappare dopo una lontana edizione Ciarrapico che entusiasmò i giovani cuori nei primi anni Ottanta. A quel tempo furono le idee di nobiltà del filosofo che insegnarono pure a rimaner soli e pochi, senza timore di scorgere le vittorie degli altri, giacché – come scrive Mario Bernardi Guardi nella presentazione -, ben sapevamo e sappiamo che Nietzsche “parla ai pochi, agli irremovibili, a quelli che cavalcano avendo a fianco la Morte e il Diavolo, eppure mostrano di non essere squassati dalla paura. I pessimisti armati di volontà, l’eredità ultima dell’Occidente, la sua sola speranza.”
Daniel Halévy, “Nietzsche”, Oaks editrice, 2019, pagg. 562, euro 20,00