“Conosco bene la scienza dei commiati”
(Osip Mandel’štam)
Nell’oggi, dominato da un narcisismo parossistico, solo alla morte si chiede riserbo e discrezione. Bisogna morire comme il faut, senza infastidire oltremisura i vivi. E così, la morte, espunta dal vivere quotidiano, o relegata ai suoi margini, rinchiusa nel ‘padiglione cancro’ (Gottfried Benn, ciclo di Morgue), diventa onnipresente solo nel mondo disincarnato, astratto, della rete, trasformata in improbabile cimitero virtuale. Perciò continua a fare scandalo il suicida, la cui morte sfrontata, impudica, di chi s’impicca en plein air, o si getta da un ponte o tra le rotaie della metro, non cessa di disturbare.
Suonano quindi tanto più inattuali, lontane, astruse, le parole di Bachofen sul simbolismo funerario dei dadi e delle mani, or ora ripubblicate dalle Edizioni di Ar (J.J. Bachofen, Sul significato de’ dadi e delle mani nei sepolcri degli Antichi). Un tema caro al sapiente di Basilea, che al simbolismo funerario degli antichi aveva dedicato, nello stesso torno di tempo (anni cinquanta dell’Ottocento), una delle sue opere capitali. La severità della tomba mal sopporta i dadi intesi come gioco leggero e quasi fanciullesco o come accanita e rovinosa passione. Essi rimandano piuttosto alle profondità ctonie di Demetra, simbolizzando il presentimento della morte come mero passaggio a una dimensione di quasi rinascita spirituale tra le braccia della madre-Terra. Le mani, nell’esegesi simbolica bachofeniana, alludono anch’esse a uno sfondo materno e ctonio, ripreso poi dal pitagorismo e dalla “mistica orfica” come ‘segno’ di speranza e di rinnovamento di vita.
Per comprendere perché Bachofen privilegi (non certo per distaccata curiositas…) proprio il simbolo, bisogna invece andare alla preziosa postfazione di Umberto Colla. Il simbolo si presta ad esser meglio intuito dall’anima che ‘afferrato’ dalla ragione; è altro dalla parola, che lo ‘prosciugherebbe’, annientandone la ricchezza di significati. Sta lì, muto, in attesa di qualcuno che sappia, religiosamente, avvicinarlo, senza l’ansia di possederlo. Come appunto stanno i dadi e le mani nei sarcofaghi funerari.
Sull’attrazione esercitata su Bachofen dal simbolismo funerario ci viene in soccorso Alfred Baümler (si veda Dal simbolo al mito, vol. I). Esaminando il culto funerario e degli antenati proprio del ‘romanticismo di Heidelberg’, lo studioso tedesco nota come davvero povero sarebbe il mondo se il morto lo fosse per davvero per colui che sopraggiunge. È invece “dono supremo” poter riprendere “il meglio di ciò che è stato tentato”, così da far vivere ancora tra noi “gli antichi e gli antichissimi”. I morti allora “non sono morti una volta per tutte e scomparsi dalla terra; gli antenati sono, e continuano ad agire e a consigliare nella comunità dei discendenti”. Lo afferma anche Savigny, altro nume tutelare di Bachofen: “ogni epoca non produce un mondo arbitrariamente e per sé, bensì lo fa in comunione indissolubile con l’intero passato”. Aggiungo solo poche parole di Gustav Theodor Fechner (dall’aureo Libretto della vita dopo la morte): “tu finora hai pensato che l’impalpabile figura con cui un defunto ti si presenta alla memoria non sia altro che una tua parvenza interiore. Ti sbagli: è lui in persona che così, con moto consapevole, non solo viene a te, ma entra dentro di te”.