Eva Duarte nacque il 7 maggio 1919 a La Unión, la proprietà terriera del padre, vicino al villaggio di Los Toldos, in Provincia di Buenos Aires (secondo altre fonti a Junín il 7 maggio 1922, ma non sono degne di fede), come figlia naturale, illegittima, secondo il lessico del tempo, di don Juan Duarte e di Juana Ibarguren, anch’essa di origine basca. Era l’ultima di cinque figli – gli altri erano Blanca, Elisa, Juan ed Erminda – di un estanciero originario di Chivilcoy e della sua cuoca ed amante. Qualche anno dopo la nascita di Evita, il padre abbandonò amante e figli per tornare a Chivilcoy, dalla moglie Estela Grisolía e dai figli legittimi. Dopo l’abbandono, la madre di Eva si trasferì a Los Toldos con i suoi figli. Evita subì, da molto piccola, la vergogna d’essere una figlia illegittima, situazione assai diffusa eppur socialmente condannata nell’Argentina d’inizio ’900.
Doña Juana, disperata per poter mantenere i suoi figli, specie dopo la morte del padre nel ’26, possedeva una macchina per cucire Singer e così si mise a confezionare pantaloni per un negozio. Quegli anni furono fondamentali per rafforzare il carattere di Eva: ai suoi coetanei era spesso vietato giocare con lei e gli abitanti del villaggio la discriminavano per la sua condizione di bastarda. Secondo vari biografi, in realtà i figli di Juana Ibarguren non furono mai riconosciuti dal padre ed adottarono di fatto il cognome Duarte dopo la morte dello stesso. La bambina fu certamente divisa tra la solidarietà verso la sua famiglia e, talora, la vergogna di appartenervi. Nella vicina Junín, a 260 km ad ovest di Buenos Aires, dove la famiglia si trasferì nel 1930, la situazione economica migliorò quando i ragazzi trovarono lavoro: Elisa lavorava all’ufficio postale, Blanca era maestra di scuola e Juan impiegato in un’impresa. Doña Juana non se ne stava con le mani in mano ed aprì una locanda.
II
L’antiperonismo adottò subito la bandiera della democrazia, che aveva appena trionfato
nella Guerra Mondiale, almeno secondo la propaganda degli Alleati. Come essi avrebbero permesso ad un notorio filo–fascista di vincere in quella grande e prospera Nazione, da sempre un’appendice dell’Europa? Il 19 settembre 1945 l’opposizione riunì in una grande manifestazione oltre 200 mila persone. Il movimento studentesco manifestava la sua contrarietà a quel che bolliva in pentola con lo slogan «no a la dictadura de las alpargatas», mentre il movimento sindacale rispondeva con «alpargatas sí, libros no» (le alpargatas erano una diffusa calzatura del popolo, le espadrillas con una tela superiore e la tomaia di juta, indossate sia da uomini, sia da donne).
Il Presidente Edelmiro Farrell, sensibile alle critiche dell’opposizione e dei militari che temevano il potere crescente di Perón, durante un incontro, l’8 ottobre, con il generale Avalos ed altri capi militari decise che il medesimo avrebbe dovuto lasciare subito tutti gli incarichi. Perón deteneva tre cariche: Ministro del Lavoro, Ministro della Guerra, Vice Presidente. L’11 gli Stati Uniti chiesero alla Gran Bretagna che non comprasse beni argentini per qualche settimana, per provocare la caduta del governo rioplatense. Il 13 il colonnello Perón venne arrestato e deportato all’Isola di Martín García per volontà dei generali, che al loro interno erano però divisi sulla gestione del potere. Il 16 ottobre la CGT (Confederazione Generale del Lavoro) si riunì e proclamò uno sciopero di ventiquattr’ore per il 18.
Ma il 17 ottobre, senza che nessuno avesse dato l’ordine – se non l’impulso frenetico di Eva Duarte, già totalmente identificata con la causa della giustizia sociale, e di Isabel Ernst, l’amica tedesca del commilitone e collega Mercante, pare a sua volta il precedente amante di Eva – non ci fu uno sciopero, ci fu la rivoluzione, la chiamata “marcia dei descamisados“. Essi occuparono Plaza de Mayo, esigendo la liberazione di Perón, e gli stessi generali che lo avevano arrestato furono costretti a richiamarlo al Governo. Quel 17 ottobre, “il Giorno della Lealtà”, sotto un sole caldo, gli uomini sudati si erano tolti le camicie; di conseguenza la parola dispregiativa descamisados (gli scamiciati) usata da un quotidiano, divenne la parola che da allora in poi avrebbe designato il popolo peronista. Dopo la liberazione, il 22 ottobre Perón si sposò a Junín con Evita, con la quale già conviveva. Presto l’uomo fu occupato con la campagna elettorale, alla quale partecipò attivamente, cosa del tutto inedita, la giovane moglie. Il treno della campagna era stato battezzato, manco a dirlo, El Descamisado…
L’Ambasciata degli Stati Uniti, diretta da Spruille Braden promosse l’unificazione dell’opposizione in un Fronte Antiperonista, che comprese i partiti Comunista, Socialista, l’Unione Civica Radicale, i Democratico-Progressisti, i Conservatori, la Sociedad Rural (i latifondisti ed allevatori), la Federazione Universitaria Argentina, la Unión Industrial (le grandi imprese), la Bolsa de Comercio ed i pochi sindacati oppositori. Braden si comportò come un leader politico dell’opposizione, in una chiara violazione degli obblighi diplomatici e del principio di non-intervento degli affari interni di uno Stato straniero. Braden, inoltre, pubblicò, pochi giorni prima delle elezioni, un rapporto denominato “El Libro Azul”, accusando il governo militare, così come l’anteriore, di aver collaborato con le Potenze dell’Asse, in base a documenti forniti dal Dipartimento di Stato in Washington. Replicarono i partiti che sostenevano la candidatura presidenziale di Perón con un libretto dal titolo “El Libro Azul y Blanco”, che abilmente propose all’elettorato l’alternativa: ‘Braden o Perón!’.
Il 24 febbraio 1946 Juan Domingo Perón venne eletto Presidente della Repubblica Argentina con il 52% dei consensi; nel 1947 fonderà il Partito Unico della Rivoluzione che venne da tutti chiamato Partito Peronista o Justicialista.
Da Giovanni Gentile Perón aveva mutuato la concezione dello Stato etico:
“Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica. È contro il liberalismo classico, che sorse dal bisogno di reagire all’assolutismo e ha esaurito la sua funzione storica da quando lo Stato si è trasformato nella stessa coscienza e volontà popolare. Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo (…) Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale (…) Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un secolo di «destra», un secolo fascista” (Enciclopedia Italiana, 1932).
Perón avrebbe desiderato “Il meglio del fascismo italiano, senza i suoi difetti”. Da alcuni
il peronismo verrà poi definito “un fascismo con più libertà e meno cultura”. Il nuovo Presidente insisteva molto sulla “Terza Posizione”, tra il socialismo sovietico e l’imperialismo capitalistico statunitense, sull’esempio dell’Italia fascista, che aveva proposto (sia pur teoricamente) il corporativismo, di matrice cattolica, quale superamento di comunismo e capitalismo. In realtà la “Terza posizione” rimase una formulazione vaga e retorica, non fece adepti, anche se singoli aspetti del peronismo furono imitati, mentre il corporativismo di Mussolini fu sostituito da un forte sindacalismo spesso truce, corrotto e ricattatore. Lo Stato divenne ostaggio del sindacato, scrisse poi qualcuno, al contrario di quanto era successo in Italia. Ciò che contribuì assai alla crisi del peronismo dopo la morte di Evita, quando le riserve auree accumulate dall’Argentina durante il Conflitto Mondiale erano ormai state dilapidate, assieme a parte della vecchia cultura del lavoro, durante gli anni esaltanti e folli di quando “la Argentina era una fiesta” ed imperava il culto di “San Perón, qué trabaje el patrón!”, che non incoraggiava gli investimenti…oltre ad altri conflitti.
I tentativi di capeggiare un’integrazione economica del Subcontinente fallirono peraltro assai presto, tra gaffes e diffidenze di chi temeva l’espansionismo argentino (a cominciare dai limitrofi Cile, Brasile, Uruguay), che notoriamente godeva pure dei consigli, della competenza e del Know-how di ex appartenenti allo sconfitto Reich germanico, militari e civili, approdati a Buenos Aires sotto falso nome con passaporti della Croce Rossa e l’intermediazione benevola del Vaticano. Oltre la realtà lavorava alacremente la fantasia, con i sottomarini, i tesori, le armi…Gli USA, e non solo, sapevano (e ne erano preoccupati) che alla fine del ’49 era iniziata la costruzione di laboratori segreti nella isola Huemul, sul lago Nahuel Huapi in Patagonia. Nel ’48 il fisico austriaco Ronald Richter aveva presentato a Perón un progetto per sviluppare la fusione nucleare controllata. La Comisión Nacional de Energía Atómica (CNEA) per la ricerca e sviluppo dell’energia nucleare a fini pacifici fu creata ufficialmente nel 1950. Perón pensava all’inevitabilità di un altro conflitto.
Sin dall’inizio la Presidenza di Perón fu di fatto una diarchia. Dove la moglie, una volta dirozzatasi un po’, occupava uno spazio sempre maggiore. Una delle benemerite battaglie combattute e vinte da Evita fu quella che portò al riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti politici e civili tra gli uomini e le donne, con la legge presentata il 23 settembre del 1947. Dopo la vittoria nelle elezioni, fu Eva, presto ribattezzata Evita, che s’interessò di fare da intermediaria tra le richieste ed i problemi dei lavoratori e Perón. Fervente visitatrice di fabbriche, scuole, ospedali, sindacati, club sportivi e culturali, Evita si guadagnò la fiducia dei lavoratori e dei sindacalisti, stabilendo una forte relazione con loro. Aveva solo 27-28 anni. Ma conosceva il popolo lavoratore, la gente comune, si sentiva parte di essa, e allo stesso tempo avvertiva una immensa necessità di operare per proteggerla, aiutarla, farla sentire parte essenziale della nuova Nazione. L’‘aristocracia con olor a bosta’(sterco), come disse un giorno Sarmiento, la disprezzava e lei ricambiava colpo su colpo.
Affermerà Evita:
“La maggioranza degli uomini che lavoravano allora con Perón credettero che io ero una semplice avventuriera. Mediocri, essi non avevano saputo sentire come ardeva la mia anima al fuoco di Perón, la sua grandezza e bontà, i suoi sogni ed ideali. Essi pensavano che io ‘calcolassi’ con Perón, perchè misuravano la mia vita con il piccolo metro delle loro anime”.
Un anno dopo le elezioni, Evita venne incaricata di rappresentare il marito in un tour
europeo che comprendeva la Spagna e successivamente l’Italia ed il Vaticano, la Francia, il Portogallo, la Svizzera, il Brasile e l’Uruguay. L’Europa del 1947 era un continente in macerie, stremato dalla guerra. Il Vecchio Mondo aveva fame e l’Argentina abbondava di grano e di bestiame: questa occasione era un’opportunità importante. Perón simpatizzava per Franco. Il giro in Europa durò 3 mesi. Evita arrivò in Spagna l’8 giugno 1947 all’aeroporto di Barajas, dove ad aspettarla c’era Francisco Franco con la moglie, l’intero governo ed una grande concentrazione di popolo. Fu proclamato un giorno di festa nazionale; anche per gli spagnoli Evita era già una leggenda. Il tono incendiario dei suoi primi discorsi spaventò però il Caudillo por Gracia de Dios. Il viaggio proseguì trionfale, così com’era iniziato, con ritardi ed alcune bizze antiprotocollari. In Italia Pio XII la ricevette per 20 minuti, come per le regine, le donò un rosario e le concesse la Gran Croce dell’Ordine di San Gregorio Magno. Non la fece marchesa, come in un momento lei aveva sperato! I comunisti l’accolsero però in modo ostile e De Gasperi, timoroso d’incidenti, le consigliò di abbreviare il programma di visite. Il viaggio presto lascerà gli europei delusi dai relativi seguiti concreti, inferiori alle attese.
III
Il lavoro della Primera Dama all’interno del governo peronista si orientò principalmente all’assistenza sociale con lo scopo di combattere la povertà. Ma non si limitò a quello. Subito dopo il ritorno dal suo tour europeo, Evita organizzò la Crociata Maria Eva Duarte de Perón, che si occupava di dirigere l’assistenza infermieristica per le donne senza fissa dimora, concedendo sussidi e provvedendo case temporanee. La preoccupazione di Evita si estese presto agli anziani. Proclamò il 28 agosto ’48 il Decálogo de la Ancianidad, ovvero una serie di diritti degli anziani.
L’8 luglio 1948 aveva creato la ‘Fondazione Eva Perón’, presieduta da lei stessa, che si occupava specialmente di migliorare le condizioni di vita dei bambini, degli anziani, degli handicappati, delle ragazze madri e delle donne appartenenti ai ceti più poveri. La Fondazione realizzò una vasta gamma di attività, dalla costruzione di ospedali, case di cura, scuole, campi estivi all’assistenza e tutela della maternità ed infanzia. I giudizi sulla Fondazione riflettono, ovviamente, il diverso approccio. Per alcuni una benemerita istituzione, mossa dall’ardore generoso della giovane Evita, che cambiò per sempre ed in meglio il volto del Paese, l’emblema forse più visibile del peronismo, che radicò una sensibilità nuova; per altri, invece, un monumento allo spreco, al ricatto, alla sopraffazione.
Eva passava l’intera giornata, che si spingeva fino a notte fonda, nella Fondazione, a ricevere personalmente le richieste, le suppliche dei connazionali bisognosi, come una pia regina dell’Ancien Régime. Non era la filantropia classica della Primera Dama, non si trattava di retorica o pubbliche relazioni. Niente di estemporaneo ed improvvisato, ma una rete capillare di soccorso sparsa su tutto il territorio nazionale. E poi quella donna eccezionale, la fata dei derelitti, con i capelli divenuti biondi, la signora dei descamisados veramente si commuoveva di fronte allo spettacolo della miseria. Era sempre elegantissima, emanava fragranze di profumi francesi, esibiva preziosi gioielli, mentre dava udienza; non tanto per la sua femminilità ed immagine di ex attrice, ma perché sapeva quanto i poveri avessero bisogno di vedere la bellezza che dona, che aiuta, consola, salva, esaudisce. Sarebbe stata per lei un’ipocrisia, una mancanza di rispetto per il popolo bisognoso, il cercare di mimetizzarsi, addobbarsi da meschina o da piccola burocrate. L’ultimo sciancato d’Argentina aveva diritto a godere della stessa Eva come i potenti della Terra: spesso riceveva in aggiunta un sentito abbraccio. Evita non aveva mai paura di sporcarsi le mani o di contagiarsi. ‘Dove esiste una necessità nasce un diritto’, sosteneva convinta.
La Fondazione funzionava con contributi pubblici e, soprattutto, donazioni. Tali donazioni erano talora estorte con minacce di rappresaglie di vario genere. Per gli oppositori, la Primera Dama spendeva fortune in gioielli e vestiti come un’imperatrice; se lasciava la Fondazione, peregrinava in treno per le vaste pianure, affacciandosi dal finestrino di un vagone speciale, salutando e gettando ai poveri festanti giocattoli ed alimenti, come ‘fossero galline alle quali si butta il granoturco’. Cioè manifestazioni di un ‘populismo’ che a molti pareva una ‘democrazia di ignoranti’ degradante, non una forma di governo che genera speranza, una forma civile di vivere in società. Populismo come meccanismo di captazione del consenso, non rimedio, ma bensì fabbrica di poveri. Eppure la stessa Evita aveva affermato che ‘l’elemosina è un piacere di ricchi senz’anima, che lascia sempre insoddisfatti i poveri. Per questo i ricchi inventarono la beneficienza, affinchè l’elemosina fosse ancora più miserabile e crudele’.
Il peronismo, al di là delle buone intenzioni sulla ‘comunità organizzata’, funzionava agli occhi di molti come una semidittatura verticalista, insofferente di opposizioni non rituali o parlamentari, con dispotismi sciocchi (ad esempio la proibizione per gli argentini di recarsi in Uruguay, dove molti avevano sempre trascorso le vacanze, andavano a giocare ai casinò, cercavano svaghi), censura, detenzioni immotivate, confische capricciose, delazioni incoraggiate, torture sistematiche della Polizia (rimase tristemente famoso l’uso, a scopo intimidatorio, della picana elettrica); soprusi intollerabili che spingevano taluni all’esilio e finirono col riversare sul regime un odio smisurato. Ci saranno stati furbastri, disonesti e profittatori attorno ad Eva, ma la Fondazione non era amministrata caoticamente, né era uno strumento di arricchimento illecito.
Prima del cancro, Evita compartì veramente le stesse sofferenze dei poveri, dei derelitti,
degli ultimi fra gli abitanti della sua terra, finanche di esseri deformi, quelli rifiutati persino dagli istituti (pare che se ne portò in casa una ventina, prima di convivere con Perón, per lavarli e curarli). Non era una santa, beninteso, però nessuno, né prima né dopo, ha mai esibito una simile sollecitudine verso gli indigenti. Anche Madre Teresa di Calcutta, che Santa lo divenne sul serio, che prescindeva dai conforti e dai beni materiali, amava esercitare il potere, molto, e spesso umiliava pubblicamente le sue sottoposte… Ci fu certamente un culto della personalità smodato (sintetizzato dai cartelli affissi su tutte le opere pubbliche in esecuzione: “Perón cumple, Evita dignifica”), al quale né la donna né il Presidente vollero opporsi. Evita sapeva comandare e farsi obbedire. Forse incline alla doppia motivazione del bene per gli altri e della gloria per sé, desiderava attirare l’attenzione, le piacevano gli applausi della folla. Conosceva il mondo reale nel quale operava, anche se sopravvalutava la propria forza e capacità. Era risoluta, decisa, cocciuta, sapeva sorridere, non solo azzannare. Ed ebbe il gran merito, guidata da Perón, di far eliminare dagli statuti della CGT ogni riferimento alla lotta di classe, al marxismo, contribuendo assai alla “nazionalizzazione delle masse lavoratrici”. Peraltro è dubbio che lo stesso marito riuscisse ad imbrigliare quella bizzosa puledra, oltre le sue assicurazioni di macho de pura cepa!
Al di là degli eccessi demagogici, fanatici, aggressivi – e pure di ‘scivolate’ nepotistiche a favore dei suoi parenti, per lo più inadeguati – è innegabile che la classe lavoratrice identificò nella persona di Evita, più che non in Perón, l’anelo ad una autentica e non superficiale ‘giustizia sociale’. Grazie al peronismo le classi meno abbienti poterono accedere alle Università, i lavoratori ebbero diritti altrove già riconosciuti e parecchi, in ultima analisi, smisero di essere poveri. Il classismo ripugnante del patriziato porteño del tempo lasciò progressivamente luogo ad una accentuata osmosi sociale. Non pochi hanno scritto delle intemperanze di Evita, dei suoi capricci, delle sue sfuriate offensive, del suo cattivo carattere, ombroso, intollerante, diffidente e suscettibile, del suo arrivismo; prepotente ed ambiziosa più che combattente, ostinata e dura come il suo sangue basco. In lei colpiscono, in effetti, con un ammirevole e sincero amore per i diseredati, la lingua affilata, un carisma nutrito di teatralità, di gestualità seduttrice, lo spirito organizzativo, il dinamismo infaticabile. E una personalità insofferente di critiche, nella quale scarseggiano senso della misura, diplomazia, autentica accortezza. Péron abbozzava, rassegnato.
Era piuttosto ignorantella Evita, in fondo una ragazza ed attrice di provincia; il poco che
sapeva di politica, storia, economia le era stato insegnato dal marito. Ma lei non agiva mossa dell’ideologia del peronismo: il suo era un impulso metapolitico, radicalmente sociale, morale e pragmatico insieme. Pensava ad un’economia del dono, della concordia, del sacrificio, del riscatto. Le venivano attribuite smanie di protagonismo esagerate. Finirà per avere dalla sua parte il popolo minuto e contro quasi tutti quelli che contano, nell’economia, nell’intelligenza, nelle università, nelle professioni (per Borges, ad esempio, lei era solo una prostituta e per tutta l’élite una yegua o una potranca, una giumenta, cioè una donna di facili costumi, prepotente, sboccata).
Lungo era l’elenco dei nemici di Evita e di Perón. Non solo esteso, trasversale. Se i meno abbienti ed i sindacati di categoria si consideravano peronisti, i nemici erano studenti ed intellettuali imbevuti di idee esistenzialiste e francesi, comunisti fedeli alle direttive staliniane, latifondisti, borghesia e classe media colta, giornali a grande tiratura. Infine, le mire geopolitiche degli Stati Uniti in piena Guerra Fredda, insofferenti di leadership regionali non sottomesse. Oltre Perón ed il suo esperimento, pur velleitario, di democrazia sociale autoritaria e di sovranità nazionale, l’ascendente ed il mito di Evita crebbero con forza travolgente, valicarono le frontiere. Amata ed odiata, ogni giorno di più. Fino a convertirsi in un personaggio unico, straordinario della storia universale, più di Giovanna d’Arco o della regina Isabella di Castiglia.
IV
Il 9 gennaio 1950 Evita svenne in pubblico e venne operata tre giorni dopo di appendicite, ma le venne diagnosticato anche un tumore all’utero. Rifiutò di farselo estirpare.
La donna voleva guadagnarsi un posto nella scheda elettorale come candidata alla Vicepresidenza nella campagna che iniziò il 2 agosto 1951. Questa mossa, sostenuta da un imponente sostegno sindacale e delle donne peroniste, preoccupò molto i capi militari ed i gruppi più conservatori, i quali cercarono in tutti i modi di evitare la candidatura, non ritenendo adatta una donna, nemica dell’ ‘oligarchia’, giovane e di estrazione popolare. Perón si trovava in una situazione quanto mai complicata. Riuscì forse a convincerla che la malattia non le avrebbe consentito di svolgere un’intensa campagna elettorale. La classe alta porteña si era salvata…
Il primo settembre ’51 Evita mandò un messaggio radiofonico al popolo argentino, annunciando la sua intenzione di rinunciare. La voce secondo la quale era gravemente malata si diffuse fra il popolo, causando tristezza fra i peronisti ed esultanza smodata fra i nemici del Presidente e della consorte. Caroselli di auto suonavano ripetutamente il clacson per l’Avenida Libertadores ogni sera. Dalle beffe alla paura, alla macabra felicità… Evita era molto debole e l’avanzamento del cancro la costringeva al riposo. Il 5 novembre 1951 la donna fu sottoposta ad intervento chirurgico dall’oncologo statunitense George Pack, nell’Ospedale Avellaneda.
Il 15 ottobre precedente era uscito il suo libro autobiografico La razón de mi vida. Scritto
con Manuel Enrique Penella de Silva, giornalista e diplomatico spagnolo. La prima edizione pubblicò 300.000 copie e, dopo la sua morte, divenne lettura d’obbligo nelle scuole.
Il 1º maggio 1952, sostenuta fisicamente dal marito alle sue spalle, tenne l’ultimo discorso pubblico dal balcone della Casa Rosada, con toni forti contro i nemici del peronismo. Fustigando, al solito, ossessivamente, “Il capitalismo straniero ed i suoi lacchè oligarchici ed acquiescenti” che, tuttavia, “hanno potuto comprovare che non esiste forza capace di piegare un popolo che ha coscienza dei propri diritti”. Il 7 maggio, giorno del suo trentatreesimo compleanno, Juan Domingo Perón nominò la moglie «Leader spirituale della Nazione Argentina», onorificenza concessa formalmente dalla Camera dei Deputati. Ormai immobilizzata a letto, pesava solo 37 chili. La sua ultima apparizione pubblica fu il 4 giugno al fianco del marito, nell’uniforme di tenente generale, rieletto, in piedi sulla vecchia Packard presidenziale, per la parata inaugurale. Riuscì a sostenere l’impegno solo con l’uso di molti antidolorifici ed uno speciale sostegno metallico. La sera tornò a letto ed uscì dalla sua camera per essere portata in ospedale.
Alle 3 del mattino del successivo 26 luglio Evita entrò in coma. La morte sopraggiunse alle 20:23 di quello stesso giorno, per adenocarcinoma; nella comunicazione l’orario fu modificato alle 20:25 e da quel giorno, a quell’ora, quotidianamente, fino alla deposizione di Perón nel 1955, i notiziari della sera si interrompevano ricordando: “Sono le 20:25 minuti, l’ora in cui Eva Perón è passata all’immortalità”.
La notte del suo decesso, la CGT emise un comunicato proclamando Maria Eva Duarte de Perón ‘Mártir del Trabajo”. Un altro titolo. Già era la ‘Patrona del oprimido’, la ‘Abanderada de los humildes’, la ‘Dama de la Esperanza’, la ‘Jefa Espiritual’, il ‘Vice Presidente Honorario de la Nación’, ‘Collar de la Orden del Libertador General San Martin’, la ‘Patrona de la Provincia de la Pampa’ ecc. Presto diventerà ‘Santa Evita’.
V
Conobbi il cimitero della Recoleta nell’autunno australe del 1980, durante la mia prima visita a Buenos Aires. Governava dal marzo 1976 il funesto Proceso de Reorganización Nacional e Presidente era Jorge Rafael Videla.
Molto è stato scritto sulla “necrofilia argentina”, sul fascino morboso là esercitato dalla morte. La morte è il gran mistero delle nostre vite, ovunque, ma sulle rive del Plata assume connotazioni talora esagerate e peculiari. Il cimitero della Recoleta (dai padri francescani ‘recoletos’ che ivi avevano il loro convento dal 1715) fu la primera necropoli pubblica di Buenos Aires, aperta nel 1822. Con i suoi fantasmi e miti. È considerato tra i più belli ed impressionanti e comparato spesso con altri camposanti come il parigino Père-Lachaise o il Monumentale di Genova. Nel cimitero risiede la storia della patria argentina: vi sono tumulati 29 presidenti e circa 200 protagonisti dell’Independenza e del violento XIX secolo. La superficie attuale è superiore ai cinque ettari, compresa tra le calles Junín, Quintana, Vicente López e Azcuénaga. Il suo fascino non risiede solo per essere l’ultima dimora di personaggi celebri, ma per le sue architetture eclettiche, le sculture, le statue, le leggende lugubri o curiose.
Nelle 4.780 cappelle funerarie e tombe del camposanto (chiamato anche il ‘panteón de la patria’) riposano i resti di figure eminenti della storia argentina, come il generale Juan Lavalle, protetto dalla statua di un granatiere (la vicenda del cui cadavere scarnificato nel 1841, a causa del caldo implacabile, per non lasciarlo cadere nelle mani dell’odiato federalista Oribe, è stata magistralmente raccontata da Ernesto Sábato nel suo Sobre héroes y tumbas del 1961, fondamentale anche per scandagliare la predetta necrofilia), Domingo Faustino Sarmiento, Bartolomé Mitre, Hipólito Irigoyen, Carlos Pellegrini, Remedios de Escalada de San Martín, Juan Manuel de Rosas (traslato dall’Inghilterra solo nel 1989, dopo un secolo di aspre polemiche al riguardo), Eva Perón, Raúl Alfonsín. Non solo esponenti della politica, ma pure i Premi Nobel Luis Federico Leloir e Carlos Saavedra Lamas, il pugile Luis Ángel Firpo, gli scrittori José Hernández, Miguel Cané, Marcos Sastre, Adolfo Bioy Casares, Victoria e Silvina Ocampo. E molti altri, più di 670 sepolture illustri, tra le quali Elisabeth Walewski, nipote di Napoleone, e Juan Baustista Tupac Amaru, discendente della dinastia Inca, che Belgrano e San Martín pensarono un giorno d’incoronare monarca dell’Argentina, agli inizi del tormentato proceso fundacional della nuova Nazione.
Una delle storie più spaventose (e forse vera) della Recoleta è quella di Rufina Cambaceres, figlia della ballerina triestina Luisa Bacichi e dello scrittore Eugenio Cambaceres che, a 19 anni, nel 1902, morì improvvisamente e la cui bara venne depositata nella cripta familiare; poi trovata, giorni dopo, con le unghie spezzate e le mani insanguinate, l’espressione di terrore sul viso, essendosi svegliata dallo stato di catalessi e, quindi, morta asfissiata. La disperata madre già vedova (ed amante del futuro Presidente Yrigoyen), fece allora collocare di fronte alla porta della cappella funeraria una statua marmorea in stile Art Nouveau, opera dello scultore tedesco Richard Aigner, che la raffigura trattando di aprirla.
Carattere tortuoso ed affascinante della Capitale argentina. Appena fuori le mura del cimitero, e del centinaio o più di gatti che lo presidiano, la vita scorre allegra nei ristoranti e locali di moda, nei negozi eleganti, fino al recente Recoleta Mall. Accanto l’antica basilica di Nuestra Señora del Pilar, ove si sono sposate generazioni di giovani-bene, ed il signorile quartiere con lo stesso nome, dalle aristocratiche residenze in stile parigino e belle piazze. In inverno anziani signori, per lo più di statura alta, col Rolex e in loden appena scende la temperatura, si dirigono di fronte, alla storica confitería “La Biela”, all’angolo delle calles Junín e Quintana, dal 1950 ritrovo di appassionati dell’automobilismo. Con il polo e golf lo sport preferito dalle classi alte.
Quel giorno del 1980 cercai la tomba di Evita. Lo stile della boveda è art decó, in granito
scuro. Sulla porta di bronzo, al centro, fregi di fiori e foglie attorno ad una croce latina; nella parte superiore un braciere, simbolo di eternità.
I militari che avevano deposto, nel marzo 1976, l’imbelle María Estela Martínez, ‘Isabelita’, terza moglie di Perón, l’argentina conosciuta a Panama, dove pare esercitasse l’ufficio di entraîneuse, ad ottobre decisero di restituire alle famiglie i corpi di Perón e di Eva, che erano rimasti nella Quinta presidenziale di Olivos. Perón venne tumulato alla Chacarita. Nell’87, la tomba fu profanata, in una elaborata operazione che coinvolse decine di persone, e gli mozzarono le mani, ipotizzando alcuni una macabra punizione rituale massonica. Un altro tassello della necrofilia argentina… La familia Duarte decise, invece, di dar sepoltura ai resti della congiunta nella cappella familiare della Recoleta – con i fratelli Juan ed Elisa, il marito di quest’ultima, il maggiore Arrieta, e la madre Juana – dove Evita ora riposa vari metri sotto il livello stradale, protetta da spesse plancie d’acciaio. Videla voleva evitare ulteriori guai con quell’ingombrante mummia, che da oltre vent’anni terrorizzava i militari, pur rifiutando, da cattolico osservante, sembra, la proposta dell’ammiraglio Massera di distruggerlo una volta per tutte!
Tornai a quel luogo varie volte negli anni successivi. La tomba si era frattanto arricchita di varie targhe in bronzo che nell’80 non c’erano. Sempre vidi turisti e persone in raccoglimento, non solo in occasione degli anniversari della nascita e della morte di Eva, e fiori freschi. Tanti fiori. Ma nell’80 la gente stava attenta, circospetta. Una anziana di aspetto modesto allora mi si avvicinò, infilò un fiore tra i fregi della porta, mi sussurrò che lì c’era una gran donna. Poi pianse.
VI
Eva defunse il 26 luglio 1952. Era un sabato freddo e piovviginoso. Teatri e cinema interruppero le funzioni, i ristoranti abbassarono le persiane. Il lutto ufficiale durò fino all’11 agosto. Perón volle compiacere un diffuso sentimento o forse pensò di utilizzare anche da morta la popolarità della moglie. Comunque rese omaggio alla necrofilia dei suoi connazionali. Già aveva contrattato il dottor Pedro Ara affinché procedesse all’imbalsamazione del corpo.
Secondo quanto disse Perón, il desiderio di Eva era quello di non essere sotterrata, nonché quello che non essere mai dimenticata. Lo spagnolo Pedro Ara, già professore di anatomia, era molto famoso; trattò subito il cadavere di Evita che, accuratamente pettinato e truccato, fu coperto da un velo bianco, avvolto da una bandiera bianca ed azzurra e posto in una bara chiusa da un vetro trasparente; esposto alla Segreteria del Lavoro, sotto l’attenta sorveglianza di Ara. Per tredici giorni il corpo della ‘madre de los descamisados’ ricevette il commosso omaggio di una folla immensa. La fila dei visitatori raggiunse i due chilometri. Le persone aspettarono anche per dieci ore pur di dare l’ultimo saluto ad Evita. Il 9 agosto la bara venne posta su di un affusto di cannone, circondata da una marea di fiori e da due milioni di convenuti, portata prima al Congresso, poi, dopo che il cardinale Copello l’ebbe chiusa, alla Confederazione Generale del Lavoro dove rimase. E dove si apprestò il laboratorio perchè il dottor Ara potesse terminare l’imbalsamazione. Come Eloy Martínez porrà sulle labbra della defunta: “Si hay algo que nos sale bien a los argentinos, son los velorios”.
Non si è mai saputo quali procedimenti e sostanze siano stati impiegati. Il corpo dovette rimanere immerso in vasche contenenti liquidi per evitare la disidratazione della pelle e, attraverso la carotide, fu iniettata della formalina nel sistema circolatorio. Ciò che Ara non disse, e fu scoperto nel ’74 da Tellechea, fu che le estirpò il cervello. Il lavoro terminò solo nel luglio dell’anno successivo, quando le spoglie di Eva furono poste su di un letto di seta, sotto una cappa di vetro, mentre la stanza era riempita di fiori e la temperatura mantenuta fresca.
L’Argentina era (ed in parte lo è tuttora) un Paese profondamente cattolico con manifestazioni di religiosità popolare di tipo meridionale, assai esibite. Fu alquanto spontanea, quindi, la ‘costruzione della Santità’ di Evita Perón. Mentre la donna agonizza, nelle strade, nelle chiese e nelle case la gente esprime il suo dolore, immagina la morte della amata ‘patrona’, rimpiange la presenza del suo corpo. Il lutto si estrinseca in pianti, preghiere, messe, processioni, atti commemorativi nei quali si venerano ritratti, statuette, s’improvvisano altari. Lo Stato le renderà molteplici omaggi e come una sovrana sarà effigiata sui francobolli.
Il quotidiano justicialista “Democracia” compara “Evita” con “la Voce di Cristo”. La sua morte a 33 anni, come Cristo, segna l’inizio di un periplo doloroso e trionfante nel quale il corpo della “Leader Spirituale” svolge un ruolo centrale. Mentre lo strano dottor Ara lavora alacremente per immortalizzare la salma, pulendo accuratamente il corpo della defunta per eliminare i segni della malattia e della morte:
“Nella costruzione della santità il corpo di Eva passa attraverso un processo di purificazione: il corpo femminile si spiritualizza, come se passasse da uno stato solido ad uno etereo, sublimato. Attraverso la ‘deslibidinización’ del corpo della defunta si cancellano i tratti di una personalità complessa e terrena per innalzarla, con tratti della passione mistica di Santa Teresa, alla figura idealizzata, altruista, di santa e di rivoluzionaria”. (Cfr. Claudia Soria, Santa Evita, entre el goce místico y el revolucionario, in http://www.lehman.cuny.edu/ciberletras.html).
Il suo ‘corpo spirituale’ esige un lutto pubblico reiterato, quasi incessante. Così il 17 Ottobre 1952, “Día de la Lealtad Peronista”, viene dedicato ad Eva. Il famoso balcone della Casa Rosada sulla Plaza de Mayo, addobbato con crespi neri, funge da scenario per riascoltare la voce registrata del discorso pronunciato da Eva il Primo Maggio precedente, quando chiese al popolo di gridare: “la vida por Perón!” Quindi il Presidente legge alla massa presente il testamento che Eva aveva redatto il giugno precedente. In esso disponeva di lasciare tutti i suoi gioielli alla Fondazione, chiedeva al popolo peronista di difendere il generale dai suoi nemici e di continuare ad inviarle lettere a suo nome. La donna comprendeva la necessità per la cultura popolare di permanere unita al suo corpo di materna intermediaria. Con la sua morte il cuore delle masse descamisadas quasi si arresta, angosciato per aver perso chi le difendeva ed amava. Adesso la tremenda forza di una donna che aveva cambiato la storia di milioni di argentini si era purtroppo spenta. Il legame tra Eva e tali masse rimase tuttavia poderoso, un “cordone ombelicale” resistente che sarà difficile da spezzare, in quanto implicherebbe l’accettazione della triste condizioni di
orfani. Mescolando la politica con la religione e creando una sorta di “religione peronista”, Eva
aveva inventato un modo efficace, autoritario e demagogico, d’imporre un focolare che è la patria e la fede, un focolare onnicomprensivo. Naturalmente la visione di Eva pone in questione la pratica religiosa cattolica, perchè nell’universo della sua ‘justicia social’ non esiste la necessità
di cercare nulla al di fuori del peronismo, perchè il partito politico tutto riassume ed esalta. Nel suo fanatismo Eva ritualizza il movimiento justicialista, trasformandolo in una religione politica,
che quasi esaudisce la fantasia di un Paradiso Terrestre. La sua lotta non ha precedenti in America Latina e nel mondo (a parte la dittatura del proletariato dei soviet), in quanto lei questiona il fondamentale statu quo, come le classi sociali si organizzano e distribuiscono potere e risorse.
“Santa Evita” si avvicina, per alcuni, a Giovanna d’Arco, altra santa portatrice della spada e identificata con la lotta. Tuttavia la pucelle d’Orléans non aspira a sovvertire il potere taumaturgico e patriarcale della Monarchia di Francia. Giovanna alza il suo grido di guerra legittimando tale potere, riaffermandolo. Invece, il grido di guerra di Evita risuona forte contro le convenzioni conformiste, dai margini dell’illegittimità, dei ceti umili, sottomessi, sfruttati, dolenti, donne, anziani, meticci cabecitas negras, per proporre un cambio radicale: la rivoluzione.
Tra il maggio 1952 e il luglio 1954 il Vaticano riceve quarantamila lettere di laici che attribuiscono ad Evita molteplici miracoli, che esigono al Papa Pio XII la sua canonizzazione, poichè le virtù della defunta eguagliano quelle della Vergine Maria. Ovviamente la canonizzazione è negata, ma Evita si santifica nella cultura popolare, diventa una figura rivoluzionaria immortale. Come tale ispirerà i movimenti guerriglieri degli anni ’60 e ’70 – famoso lo slogan: “Si Evita viviera/ sería montonera!”– anche se gli stessi saranno sempre più socialisti e castristi e meno peronisti…E qualcuno, presto deluso da Perón, che privilegia la destra peronista alla sinistra, giungerà ad urlare slogan irriverenti, offensivi come: “Vea, vea, vea/ qué manga de boludos/ votamos a una muerta/ a una puta y a un cornudo”, alludendo alla supposta relazione tra il torbido López Rega – organizzatore della Triple A, uomo forte del Governo – ed Isabel Perón.
Quando, il 16 settembre 1955, Perón è destituito dalla combinazione Chiesa-Esercito della ‘Revolución Libertadora’ (più che della libertà la rivincita del peggior conservatorismo, di nostalgie di ottuso immobilismo; como disse, cinico, il contrammiraglio Arturo Rial: la ‘Revolución Libertadora’ è stata fatta in questo benedetto Paese perchè il figlio dello spazzino muoia spazzino!), nella confusione del momento il dottor Pedro Ara, che mai aveva abbandonato il cadavere imbalsamato, chiede al fuggitivo Presidente che cosa debba fare con lo stesso. Perón, assillato da questioni più urgenti, si limita a promettergli future istruzioni, che mai giungeranno.
La salma di Evita costituiva per i militari – che osservavano il dottor Ara e la sua opera in un misto di timore e curiosità – uno scomodo motivo di preoccupazione, in quanto le mortificate masse peroniste non pensavano affatto a dimenticarla. Il generale Aramburu decise allora di recidere il nodo gordiano ed affidò la mummia al capo del Servizio d’Intelligenza dell’Esercito, tenente colonnello Carlos Eugenio Moori Koenig, con l’ordine non di distruggerlo, ma di ‘farlo sparire’ con gran discrezione. Così il cadavere di Evita fu ritirato dalla CGT il 23 de novembre 1955, tra le proteste vibranti del dottor Pedro Ara. Ma la mattina seguente, nel luogo dove era posteggiato il camion, in attesa di una decisione, furono trovate candele accese e fiori. Fiori e candele che ossessivamente segneranno l’odissea di quel corpo imbalsamato, nonostante i tentativi di confondere i peronisti. Moori Koenig lo tenne presso di sé, disubbidì l’ordine di farlo seppellire anonimamente alla Chacarita, dando prova di un crescente squilibrio nervoso e mentale. Forse non lo abusò sessualmente, ma lo manipolò con frequenza, con morboso compiacimento necrofilo, esibendolo pure ai suoi ospiti. Quando la cosa venne riferita al generale Aramburu, questi destituì Moori Koenig ed incaricò il colonnello Héctor Cabanillas, di provvedere. Egli propose di far uscire il corpo dal Paese ed organizzò allo scopo l’ ‘Operativo Traslado’. Le peripezie del corpo di Evita sono state magnificamente descritte da Tomás Eloy Martínez, sia pure con varie licenze, nel suo famoso libro “Santa Evita” (1995): “Morta e santificata, Evita continuava a terrorizzare i suoi nemici, più di quando era viva”.
D’intesa con il Vaticano, la mummia venne segretamente trasferita ed inumata nel Cimitero Maggiore di Milano, sotto falso nome, fino alla restituzione a Juan Domingo Perón, nel settembre 1971 a Madrid, per decisione di Alejandro A. Lanusse, nuovo Presidente dell’Argentina, deciso a dare all’Argentina la stabilità istituzionale e democratica, mai conseguita dal ’55 in poi. Un gesto di riconoscimento, concordando con ‘il vecchio generale’, ormai abbastanza male in arnese, ma interlocutore ineludibile, una serie di passi necessari al ‘Gran Acuerdo Nacional’.
Frattanto il generale Pedro Eugenio Aramburu – tra i capi del golpe che il 16 settembre 1955 rovesciò il governo di Péron, costringendolo all’esilio, e che presto assunse la Presidenza dell’Argentina – era stato assassinato il 1º giugno 1970 con un colpo di rivoltella, due giorni dopo esser stato rapito dai guerriglieri Montoneros per il suo ruolo nel golpe del 1955, le esecuzioni capitali di José León Suárez nel 1956 (a seguito della intentona del peronista generale Valle molti civili e militari furono sommariamente fucilati) e la sparizione della salma di Eva Perón, e condannato a morte. Nel comunicato del giorno precedente si affermava che “le spoglie del condannato solo saranno restituite alla famiglia quando il Popolo Argentino riavrà i resti della cara compañera Evita”. Il cadavere, trofeo politico dell’organizzazione guerrigliera, fu però presto ritrovato, frustrando le sue intenzioni, e collocato nel cimitero della Recoleta. Aramburu era il solo in Argentina a conoscere l’ubicazione della salma di Eva Duarte. Aveva consegnato la relativa informazione in busta chiusa ad un notaio, con la disposizione di contattare il capo del Servizio d’Intelligenza dell’Esercito una settimana dopo la propria morte.
Il corpo consegnato a Perón recava i segni delle vicissitudini passate, non solo quelle imputabili all’umidità od ai vari trasferimenti. Qualcuno si era accanito contro di esso, infliggendogli tagli e colpi. Perón rimase costernato nel vedere la profanazione, ma decise che non era opportuno alimentare altro odio. Pertanto non drammatizzò e non commentò la circostanza. Anzi il dottor Pedro Ara, ancora in vita, convocato allo scopo, affermò di averlo trovato “ben conservato”. Perón non poteva neppure dimenticare che quella tardiva consegna era anche il ‘risultato’ della morte del generale Aramburu, quello che aveva fatto fucilare 27 persone, abbattere il Palazzo Unzué della Avenida Libertadores (dove oggi sorge la Biblioteca Nazionale), solo perchè nella Residenza presidenziale Evita era deceduta; aveva proibito persino di pronunciare il suo nome, sotto pena di arresto; nei documenti egli era definito “tirano prófugo” o “dictador depuesto”, Eva defunta “esa mujer”: aveva, insomma, cercato di cancellare gli anni della diarchia dalla memoria di una Nazione. Fallendo totalmente.
Tornato in Argentina, Perón preferì lasciare il corpo della seconda moglie a Madrid, nella sua quinta ‘17 de Octubre’. Nel 1973 egli fue rieletto Presidente per la terza volta, assumendo il 12 ottobre, con la moglie María Estela Martínez, ‘Isabelita’, como Vice Presidente. Un uomo acciaccato, con i capelli imbrillantinati e tinti di nero, che cercava un po’ pateticamente d’imitare quello di anni prima. Colpito da broncopatia infettiva, si aggravò la cardiopatia ischemica cronica: morì per arresto cardiocircolatorio già il 1 luglio 1974. Lasciando il Paese nel caos; si schiusero le porte dell’inferno.
Dopo, il corpo di Aramburu fu sequestrado alla Recoleta, sempre dal Movimento Montoneros, per pressionare il Governo peronista di Isabelita affinché trasladasse all’Argentina la salma di Eva. D’accordo col suo onnipotente Ministro de Bienestar Social, José López Rega, amante delle teorie e pratiche esoteriche, la Presidente ordinò allora il trasferimento. L’idea faraonica di López Rega, mai neppure convertita in vero progetto, era di costruire l’ “Altare della Patria”, tra la Recoleta ed il Barrio Parque, dove tumulare i resti di Perón, Evita, José de San Martín, Juan Manuel de Rosas, Hipólito Yrigoyen, Facundo Quiroga ed altre figure della storia. In omaggio alla grandezza di una Nazione, ad una tradizione da forgiare ed alla solita necrofilia…
Conscia che il suo pur fragile potere era come legittimato da Evita, la viva nel ricordo e la defunta, Isabel ordinò allora di restaurare il suo corpo, rimanendo così cancellati per sempre le tracce della profanazione ed i danni del tempo, grazie all’opera sapiente di Domingo Tellechea, direttore del Museo della Casa di Governo. Come sosterrà Tellechea nel 1997, il corpo mostrava:
“Una profonda incisione nel collo dove albergavano insetti e microorganismi, il setto nasale era distrutto, un orecchio danneggiato, le braccia ed i ginocchi apparivano in pessimo stato, mancava una falange della mano destra ed il dito medio di un piede (…) tali danni non erano stati causati dai movimenti del corpo, ma per aver esercitato molta forza contro lo stesso”.
Nulla venne fatto filtrare alla stampa per non irritare l’Esercito in un momento convulso dell’Argentina, in preda alla violenza estremista. Il 17 novembre 1974 la salma di Eva Duarte, tornata perfetta, fu collocata in esposizione nella residenza presidenziale di Olivos, al lato del sarcofago chiuso del marido, che aveva rifiutato, per sé, ogni ipotesi d’imbalsamazione.
VII
Eva Duarte conobbe Juan Domingo Perón nel gennaio 1944, quando la città di San Juan venne distrutta da un terremoto che causò più di diecimila morti. Perón, promosso Segretario del Lavoro, con la finalità di raccogliere dei fondi per la ricostruzione delle località colpite, decise di organizzare un festival, affidato a una commissione di artisti, tra i quali Eva. Il 22 gennaio del 1944 durante il festival, al quale parteciparono anche effettivi dell’Esercito e della Marina, l’attrice e l’astro nascente Perón s’incontrarono.
Già nel febbraio 1944 Perón e la giovane, divenuta molto presto sua amante, decisero di andare a vivere assieme, nel nuovo appartamento di Evita, situato nella calle Posadas del quartiere bonaerense della Recoleta. Decisione dai benpensanti poco apprezzata, all’epoca, per un ufficiale superiore e ministro, ma segno inequivocabile dell’adesione dell’uomo ad una moralità non convenzionale. Più che colpo di fulmine o attrazione erotica, essi dovettero, forse, sedursi vicendevolmente per gli interessi politico-sociali, il fascino del potere, l’ambizione di complementarsi, di realizzare una profonda azione di rinnovamento, per certi comuni aspetti delle
loro multiformi personalità. ‘Ideali e sentimenti’, dirà Perón anni dopo. Eva fu sempre protettiva.
Non fu neppure il classico rapporto da Pigmalione a Galatea, il maturo ufficiale e politico che ricerca la donna perfetta, che aspira a plasmare trasmettendole le sue conoscenze. Perché la giovane Duarte potrà non conoscere molti fatti della storia, ma percepisce al volo situazioni, pericoli, trappole, vantaggi e svantaggi dell’azione. È collerica, ma dotata dell’astuzia ruspante, rustica, per l’origine e di chi nella vita ha sempre dovuto sfangarla. Perón affermerà poi a Eloy Martínez di essersi innamorato della sua bontà e probabilmente non mentiva. Non era mai stato un amante focoso. Non possedevano, nessuno dei due, dei temperamenti passionali. Il colonnello aveva una personalità meno complessa ed impetuosa di quella di Eva, era colto, seppur diffidente degli intellettuali, gioviale, arguto, naturalmente sorridente, controllato, socievole, gli piacevano i cani barboncini, ma era austero e spartano, portato agli sport ed alla vita semplice all’aria aperta.
Intanto la carriera artistica dell’attrice, anche per l’indubbio prestigio del suo amante,
continuava a crescere ed in quell’anno venne altresì nominata presidente della Asociación Radial Argentina, il primo sindacato dei lavoratori della radio.