Oltre guardare con stupore le immagini televisive legate alle partite della Confederations Cup, pochi in Europa riescono a dare un’interpretazione corretta di quanto stia capitando in Brasile, dove le proteste antigovernative – anche violente – sono in atto da un paio di settimane nelle principali città dell’immenso Paese sudamericano. Per capirne qualcosa di più Barbadillo si è rivolto al giovane studioso brasiliano di politica Andrés Eugui, amico e lettore del nostro web-magazine. Ecco le impressioni e un tentativo di analisi che va al di là dei luoghi comuni da parte di chi è “sul campo”, e non da questa parte dell’oceano.
Una piccola battuta: “Che cosa sta accadendo?”. Fin dal inizio delle proteste nella città di São Paulo (capitale finanziaria del Brasile), molte persone si fanno questa domanda, anche la cosiddetta “intelligentsia” illuminata. Le proteste hanno avuto, in un primo momento, un’origine semplice: l’aumento del prezzo del trasporto pubblico. Ma quello che è accaduto dopo non si trova in nessun manuale di politica. Questa sensazione di stupore è sintomatica e rivelatrice. Rivelatrice perché è una dimostrazione di un reale “déficit” della classe intellettuale brasiliana nel capire la situazione sociale della propria patria. In Brasile c’è una vera e propria mancanza di quello che si può denominare “cultura politica”, o anzi, di “cultura metapolitica”. Che cosa intendiamo per “metapolitica”? Una buona definizione è quella proposta dal filosofo argentino Alberto Buela. Per Buela “la metapolitica è lo studio delle grandi categorie che condizionano l’azione politica. Quello studio chi permette il passaggio dalla cripto-politica alla politica pubblica”.
I cambiamenti politici nel Brasile raramente sono stati un prodotto della partecipazione delle masse popolari, e in questo si conferma una certa “regolarità” (per utilizzare una espressione di Gianfranco Miglio) della politica brasiliana. Da sempre i cambiamenti si sono prodotti non dal basso ma dall’alto. In altri Paesi sudamericani, tipo l’Argentina, è accaduto quello che molti storici hanno definito come “nazionalizzazione delle masse” (Mosse, De Felice), ma questo processo di integrazione delle masse nella politica brasiliana è stato sempre stato ostacolato dalle forze conservatrici e reazionarie.
In Brasile il primo movimento di massa è stato l’Integralismo di Plínio Salgado (un movimento di carattere fascista, ndr) negli anni ‘30/’40 del secolo XX. Il presidente Vargas, attraverso una alleanza con i settori conservatori, spaventati dalla partecipazione popolare a questo movimento parafascista, all’epoca decisero di reprimerlo sanguinosamente. Anche la eredità del cosiddetto “trabalhismo” (laburismo) di Vargas non si è mai tradotto nella partecipazione delle masse dei lavoratori. È appena un esempio della difficoltà storica, in Brasile, di una vera partecipazione popolare alla politica. Un esempio contrario: in Argentina il peronismo ha acquisito nel tempo la categoria di “cultura politica”, canalizzando le rivendicazioni delle masse per farle partecipare al destino comune della patria.
Ritorniamo alla attualità politica del Brasile. Il PT (Partito dei Lavoratori), al potere da dieci anni a livello federale (cioè del governo centrale, ndr), in un primo momento ha tentato una manovra politica nella città di São Paulo per neutralizzare l’opposizione rappresentata dal PSDB (che governa lo stato di São Paulo). Ha manovrato la sua base sociale per protestare contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici. Le proteste per chiedere l’abbassamento del prezzo si sono ben presto tradotte in un movimento più grande. Molti si sono resi conto che il PT, anche se in dieci anni di governo ha realizzato molto per le classi più basse, lo ha fatto attraverso una generalizzata corruzione. La sinistra, che all’inizio voleva mobilitare la propria base per una causa specifica (mettere in difficoltà il PSDB a São Paulo), ha ispirato e coinvolto altri settori per protestare contro la corruzione generalizzata. Ma le proteste non sono proteste di “popolo”.
Le forze della destra liberista in dieci anni di governo Lula/Roussef non hanno creato una alternativa politica credibile per il Brasile. Nella sua strategia gramsciana, il PT ha egemonizzato l’agenda politica, culturale e sociale in Brasile. Ora la destra liberista crede che le proteste siano una opportunità d’oro per colpire l’egemonia della sinistra “petista”; ma in realtà non ha la forza né la capacità di proporre un’alternativa “culturale”.
La forza politica che può davvero approfittare di queste proteste è invece quella rappresentata dalla ex-senatrice Marina Silva e dal suo nuovo partito “Rede” (Rete). Questa forza politica è la più pericolosa. I militanti del neo-partito appartengono alle classi urbane che si ispirano ai movimenti degli “indignados” emersi nel mondo. Marina Silva è una propria e vera khmer-verde. Tra le persone che tifano per quella che la stessa ex-senatrice definisce come “una nuova politica”, ci sono infatti banchieri, liberal-chic e globalisti di vario genere.
Il Brasile non è in crisi sociale. Le proteste si sono ben presto trasformate in un piccolo carnevale di persone che sono contro tutto e contro niente. Ma c’è un pericolo: cioè che questo movimento si trasformi in una rivoluzione “colorata”. In tal caso non possiamo prevederne i risultati. Basti pensare alla Libia, all’Iran, al Venezuela, etc. In caso di crisi sociale, un’unica forza può essere la garanzia di stabilità: le Forze Armate, che sempre hanno giocato un ruolo decisivo nel Brasile. E sarebbe una vera ironia della storia se per caso la presidente Dilma Roussef, ex-guerrigliera, avesse bisogno dell’aiuto dei suoi antichi nemici, i militari, per mantenersi al potere. Ma sarà sua la responsabilità di mantenere la pace sociale e la stabilità del Paese contro forze le forze centrifughe reazionarie e globaliste.
* laureato in Filosofia all’Università di São Paulo, analista politico