Soprattutto negli anni recenti, i libri di Paolo Isotta suscitano, con la loro presenza anche soltanto esteriore, una sorta di ravvivante ansia e di fiduciosa attesa. Quando apparve, nel 2015, La Virtù dell’Elefante, si poteva prevedere, già prima di aprire il volume, una serie di mine antiuomo celate fra le pagine: frustate repentine da togliere vaste zone di epidermide, attacchi frontali, sentenze da non lasciare scampo.
Occasioni simili non mancarono nel libro successivo, uscito d’impeto nel medesimo 2015, ma all’assetto da combattimento già si affiancava il ludus reso “cattivo” e perciò attraente da sapienti calembours scoscesi o mascherati da illusioni ottiche. Infatti, il titolo, Altri Canti di Marte, avrà certamente indotto più d’uno a domandarsi dove fosse finito l’altro libro di Isotta in cui avremmo potuto leggere i precedenti poemi o versi dedicati, chi lo sa, alla guerra, alla dea Eris, al duro polemizzare. Dopo di che, si apriva il volume e si capiva il significato del titolo, che attingeva a un grande poeta barocco: altri (ossia “un altro”) celebri pure la polemica, la politica, la contesa (sottinteso: poiché qui si tratta di argomenti più nobili e non effimeri). Poi, a partire (secondo noi) dal coinvolgente e nobilissimo Canto degli Animali, ha assunto preminenza un invito da gran signore: “Entrate nel mio dominio, guardate, ascoltate, osservate, considerate”. Ed ecco questo libro, che è un’amplissima “wunderkammer”; ci vi entra, non vorrebbe più uscirne.
Soltanto a guardarlo, sappiamo ciò che promette, a partire dall’immagine in sopracoperta, Apollo e Dafne di Dosso Dossi. Ovidio, i Metamorphoseon Libri, che nella nostra lingua chiamiamo Le Metamorfosi. Analizzare questo libro (non abbiamo spazio per farlo, ma il “come” possiamo lasciarlo intuire a distanza e suggerirlo a qualsiasi lettore…molti, molti, speriamo!). Tre gli strumenti fondamentali dell’artifex. Il primo è l’assunto. Il teatro d’opera, sin dalle sue origini “pre-natali”, sin dagli Intermedi del 1589, sia da Marco da Gagliano, da Peri, Corsi, Rinuccini, e con esso la musica moderna d’Occidente, ossia la parte più alta e nobile della cultura e della civiltà occidentale (oggi odiata e fatta strame, aggiungiamo noi, dalla Chiesa cattolica, dalla repubblica “democratica” e dalla maggioranza di quel volgo che alcuni ancora osano definire “popolo”), nasce dall’immortalità dei miti pagani, né poteva essere diversamente, essendo il mito (lo ripeterà con forza Hofmannsthal) il modo più esatto, preciso ed esauriente di narrare l’origine del mondo.
Un tesoro dell’universo, custodito ed elargito dal poeta sulmonese. Lo definisce Paolo Isotta: le Metamorfosi, insieme con l’altro e incompiuto poema ovidiano I Fasti, “sono il più vasto e ambizioso tentativo di raccontare il mito che la poesia abbia attuato”. È vero? E i grandi testi della poesia ellencia ed ellenistica su questo tema? La Teogonia di Esiodo è tutt’altra cosa: è un testo illustre e rituale. Lo stesso Isotta indica Le Dionisiache di Nonno di Panopoli. Ma sono un dovizioso repertorio, le altre opere che narrando le storie degli dèi e della loro commistione con gli uomini. Solo che nessuna di quelle opere, molte delle quali sono eleganti e fantasiose, ha l’energia creativa di Ovidio e ha la sua diretta partecipazione, come se egli fosse una delle figure evocate e descritte nei suoi poemi. La poesia ovidiana è ispirata “all’idea, modernissima, che nulla nell’universo è stabile ma tutto nell’eternità muta e muterà”, e forse questo spaventò o irritò Augusto, fermissimo nel credere in un impero durevole e invincibile, il quale, pur amando Ovidio, lo mandò in esilio perpetuo a Tomi (oggi Costantza) sul Ponto Eusino (Mar Nero). Questo si domanda Isotta, l’error cui allude con angoscia e timore Ovidio? Non un error commesso ma l’identificazione dell’error con il carmen?
Gli altri due strumenti sono semplicemente l’invito alla lettura: la selva che nelle pagine di Isotta germoglia e si ramifica in ogni direzione. Ovidio, con i suoi poemi e la sua forma simbolica fondata sulla metamorfosi, è in ogni particella elementare della musica d’Occidente, e alle sue morfologie in perenne trasformazione ogni musica che amiamo finisce solo per somigliare, siano Dafne ed Euridice e Orfeo (Caccini, Peri, Monteverdi), siano Metamorphoseon e Daphne e Danae di Richard Strauss sia, nella sua immensità e maestà, l’immensa tradizione del teatro d’opera, Metamorfosi, come abbiamo scritto una miriade di volte, è appunto la musica forte. La musica debole o nulla, quella che tanto è lodata dagli altri prelati e dagli altissimi funzionari dello Stato, ha come destinazione, crediamo, l’immondezzaio.
*Da Il Sole 24 ore del 24.02.2019