Lo scorso 18 febbraio è stato per la NASCAR una delle ricorrenze più toccanti, vale a dire il diciottesimo anniversario della scomparsa di una delle sue stelle più iconiche: Dale Earnhardt.
Per noi europei, abituati ad intendere le corse in termini certamente velocistici ma anche di calcolo, tecnica e che abbiamo un vero e proprio culto per i tracciati articolati, può apparire completamente estranea la filosofia che sta dietro a questo campionato che negli U.S.A. è secondo per seguito, dietro solo al Super Bowl.
Nata ufficialmente nel 1948 sulla scia delle corse che avvenivano a Daytona Beach in Florida, la NASCAR ha in realtà la propria genesi nelle berline modificate, usate dai contrabbandieri di alcool per sfuggire alla polizia durante il proibizionismo. Legittimatosi come il campionato regina delle stock-car, con i suoi autoscontri e le battaglie epiche sugli ovali –emanazione diretta dei catini in senso antiorario dove corrono i cavalli; piste inconcepibili per noi europei- è divenuta nel tempo un pezzo della cultura pop di questo paese. Sicuramente, molto lo si deve al “nostro” eroe Dale Earnhardt.
Nato il 29 aprile 1951 dal figlio di un operaio tessile di Kannapolis, praticamente nella scala sociale l’equivalente bianco di un raccoglitore di cotone, Dale comincia ben presto con le corse, seguendo le orme del padre.
Il papà di Earnhardt, Ralph, è un buon corridore, vincitore di diverse corse minori: soprannominato “Ironheart”, ironia della sorte muore nel 1973 a soli 45 anni per un attacco cardiaco.
Solamente due anni dopo, ecco l’esordio ufficiale di un ventiquattrenne sconosciuto nella Winston Cup (iconica denominazione della NASCAR per motivi di sponsor tra il 1971 e il 2003). La prima vettura, una Dodge. I primi anni sono difficili, il mezzo quasi mai all’altezza. Il ragazzo poi, esacerbando oltre i limiti la genesi della categoria e guidando più col paraurti che con altro, diventa presto un vero e proprio incubo per gli addetti ai lavori: non si contano i massacri delle carrozzerie e delle altre componenti.
Non che manchi il talento, visto che il primo titolo è del 1980 ma la sensazione è quella di un puro sangue poco in grado di sapersi gestire ad alti livelli nel lungo periodo.
Addirittura, il team con cui corre nel 1981 finisce l’annata in rosso di 75000 dollari a causa della continua necessità dei pezzi nuovi per le riparazioni. Intanto però, il pilota stava crescendo, per lo meno sul piano della costanza. La prima grande occasione infatti, l’aveva avuta già nel 1978, alla World 600 di Charlotte dove era finito a muro a quattro giri dalla fine. Del 1979 è la prima vittoria, ottenuta a bordo di una Chevrolet in quel di Bristol.
Proprio con il celebre marchio del gruppo General Motors, cui torna definitivamente nel 1984 dopo due anni di “esilio” in Ford, si inizia a progettare in grande.
Trovata finalmente anche la tranquillità famigliare grazie al terzo matrimonio (dopo i primi due andati in frantumi, dei quali il secondo gli aveva dato il figlio Dale Junior, futuro pilota delle stock), le vittorie a bordo della Chevy nera numero 3 del il team di Richard Childress –quello che lo aveva accompagnato alla porta nel 1981- e il successivo arrivo dal 1988 dello sponsor Goodwrench, divisione di ricambi e assistenza GM al posto di quello dei jeans Wrangler, progressivamente pongono le basi del mito.
Nel frattempo arrivano altri due titoli: 1986 e il 1987. Il periodo d’oro però doveva ancora arrivare.
E’ a cavallo delle quaranta primavere infatti, e cioè tra il 1990 e il 1995, che ci sono ventinove vittorie e quattro titoli: 1990, 1991, 1993 e 1994. Con il settimo titolo viene anche eguagliato il “Re” Richard Petty. Earnhardt ormai, è una gloria vivente dell’automobilismo a stelle e strisce. Già soprannominato “Big E”, al numero 3 vengono affibbiati altri soprannomi:” Ironhead”, “Man in Black” ma soprattutto quell’ “Intimidator” che da l’esatta misura dell’uomo, oltreché del pilota che corre, da spettacolo e vince con il numero della Trinità sul tetto esaltando le folle. Dale però, non è solo questo: fondatore di un suo team ma anche attento seguace e guida di suo figlio Jr quando questi si affaccia nel mondo degli ovali, Intimidator sa essere, per certi versi, anche uomo di moda e stile: non solo lo spiccato accento sudista ma anche gli onnipresenti occhiali da sole, secondi ai suoi folti baffoni nell’iconografia, che non mancano mai di coprire lo specchio dell’anima, neanche avesse preso spunto accurato dal miglior Enzo Ferrari.
E poi, ci sono le sue usanze alla guida: ultimo romantico tanto da usare il casco Jet ancora nel 2000 con il suo microfonone per comunicare alla squadra, abituato ad usare le cinture con cinque attacchi (al posto dei classici sei che comunque non erano obbligatori nella categoria), Dale era solito ancorare la cintura di sicurezza inguinale davanti al sedile senza farla passare per l’apposito foro, mentre ancorava al telaio quelle toraciche, così da avere una maggiore libertà. Storica poi era la consuetudine di guidare con la testa leggermente inclinata sulla sinistra.
Intanto però, in America affianco alla maledizione dei Boston Red Socks nelle World League di Baseball, era nata anche quella del rapporto tra l’ormai numero 3 e la più importante corsa NASCAR, ovvero la Daytona 500. Non che tra il campionissimo e il catino della Florida mancasse un buon rapporto, tanto è vero che in varie corse minori ivi erano arrivati 33 successi, anche se mai nella gara vera e propria.
L’incantesimo, si spezza solo nel 1998, con la tanto agognata vittoria nella suddetta Daytona 500: per il nativo di Kannapolis si trattava poi anche di una sorta di rivincita “fisica” personale, dal momento che due anni prima a Talladega un incidente lo aveva lasciato con lo sterno spezzato, una spalla fratturata e una serie di costole rotte a fisarmonica. Gli anni successivi poi, rispettivamente con tre vittorie nel 1999 e due nel 2000, sembravano aver ufficializzato la definitiva seconda giovinezza, corroborata anche dal titolo di Dale Jr nella Bush Series, la “Serie B” della Winston Cup, nel 1998 e dal suo successivo esordio nella classe regina con il team di famiglia.
Il 2001 poi, si era aperto con l’ottimo quarto posto assoluto nella 24 Ore di Daytona a bordo di una Chevy GT, in equipaggio, oltreché con il figlio, con Andy Pilgrim e Kelly Collins, mentre la gemella pilotata da Johnny O’Connell, Ron Fellows, Chris Kneifel e Franck Fréon aveva ottenuto la vittoria generale.
Le premesse per un ennesimo assalto alla Dayton 500, quella del 18 febbraio 2001, forse l’ultimo, sembrano ottimali. Ancora quindici giorni di quella fatidica data dichiarava : “Vorrei solo andarmene nel modo giusto. Giunto a quasi 50 anni, ormai è l’unica cosa che rischio di sbagliare. E proprio non vorrei”.
Riletta così, a freddo, fa ancora un certo aspetto.
Alla domenica le danze si aprono presto anche se i giochi si risolvono solo all’ultimo: regna sovrana l’incertezza e ancora dopo la fine della neutralizzazione al giro 180 sui 200 totali, non sembra emergere un netto favorito. Le dinamiche si svolgono come al solito, in un continuo gioco di scie e contro scie.
Solo negli ultimissimi due giri dal gruppone emergono Michael Waltrip e Dale Jr, entrambi del team di Earnahrdt, mentre il loro capo si assesta in una splendida terza posizione facendo loro da scudiero.
Così almeno dovrebbe essere, con la bandiera a scacchi e la folla che salutano l’uno-due sopracitato. Intanto però, è successo qualcosa e gli spettatori si sono improvvisamente ammutoliti.
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=O0Fw35muKxA[/youtube]
Non basta un asettico tabellone che classifica il numero 3 in un’anonima dodicesima posizione finale a rendere l’esatta misura delle cose. A mezzo miglio dalla fine è infatti avvenuto l’irreparabile.
Mentre “Big E” viaggia sulla corsia centrale, c’è l’attacco da Sterling Marlin all’interno, dal quale il 3 cerca di difendersi: è a questo punto che tra le vetture c’è un contatto, al cui effetto Earnhardt cerca di rimediare con un leggero controsterzo, tanto inutile quanto tragico, dal momento che ottiene l’esatto opposto. L’uomo uscito vincitore per ben 76 volte dalle Winston Cup Races e in grado di affrontare e distruggere da solo sfide e avversari, questa volta si deve arrendere alla fisica.
Il tentativo di controsterzare si risolve così nel più classico e temuto degli effetti pendolo, che spinge la vettura verso l’esterno, la fa impattare con quella di Ken Schrader e insieme a questa la fa schiantare addosso al muretto esterno con un angolo di 55° per poi farla scivolare lungo la pista fino al prato opposto. L’incidente, sebbene importante, almeno all’inizio sembra non essere quello che poi si rivela. Ad ogni modo, dalla sua vettura Dale Earnhardt non scende.
Il primo a correre per sincerarsi delle condizioni del rivale è proprio Schrader che affacciatosi nell’abitacolo, assiste ad una scena terribile: Dale è accasciato senza mascherina protettiva (le cinture sono tese in una posizione stranissima ed una si è anche recisa a causa della trazione), le razze del volante sono distrutte e c’è tantissimo sangue che imbratta la tuta del pilota e l’abitacolo. Dale deve aver sbattuto contro il piantone dello sterzo.
E’ un vero shock, in primis per lo stesso Schrader che solo molti anni dopo ammetterà di non aver mai voluto prendere coscienza per esser il primo ad annunciare la morte di “Intimidator”.
Il pilota poi, estratto e trasferito subito all’Halifax Medical Center verrà dichiarato morto alle 17:16.
La causa ufficiale: una frattura alla base cranica. Frattura questa, generata dalla decelerazione; il pilota infatti, non portava il collare HANS che evita al capo il tremendo colpo di frusta. Questo dispositivo, diverrà obbligatorio solo successivamente in quell’anno, mentre nella CART già lo era da inizio stagione e in F1 lo sarà solo dal 2003.
Un successivo studio, accuratissimo tanto nei parametri quanto nelle metodologie, rivelerà che l’impatto è avvenuto a circa 255 km/h, con una gravità di circa 956 kN/M ed un picco di decelerazione oscillante tra i 48 e i 68 G protrattosi per 0.08 secondi. La particolare dinamica dell’incidente, con la vettura che si schianta piatta di taglio, non permette nessuna dissipazione dell’energia che dunque si esprime in tutta la sua forza: a riprova di ciò, il fatto il gruppo propulsore-trasmissione-differenziale sia arretrato di circa sette centimetri.
Se tutto questo non fosse di per sé abbastanza sconvolgente, alla frattura nella base cranica va collegato il fenomeno del “dumping” (primo caso in assoluto nella NASCAR), vale a dire uno spostamento repentino del carico tutto su una parte del corpo, la destra, in conseguenza della trazione che avrebbe anche strappato la cinta sinistra. Per questo, sono state riscontrate altre ferite e lesioni minori, benché asimmetriche.
A seguito dello studio sopracitato insomma, la tragica lesione che ha causato la dipartita di questo mito vivente ha avuto tre fattori:
1) l’impatto tra la Chevy numero 3 ed il muro di cemento;
2) il precedente contatto con la Pontiac numero 36 di Ken Schrader che ha cambiato la posizione di guida di Earnhardt e dunque del suo casco;
3) il già analizzato cedimento della cintura sinistra.
Dopo l’iniziale smarrimento, la categoria inizia a lavorare per risolvere il problema della sicurezza: oltre al già citato obbligo dell’HANS, verranno introdotte in definitiva dal 2005 delle nuove barriere protettive e dal 2007-2008 nuove regole tecniche che porteranno all’esordio delle cosiddette “Car of Tomorrow”, vetture dal nome emblematico con specifiche più simili alle vetture stradali e dai minori consumi.
Nonostante siano ormai passati quasi venti anni da quella Daytona 500 del 2001, nessuno, nemmeno in Europa può dimenticare le gesta e la figura di Dale Earnhardt. Basti pensare che Daniel Ricciardo, allora neo pilota Red Bull, quando nel 2014 dovette scegliere il numero di gara che lo rappresentasse, scelse proprio il 3 in onore dell’ex mito della NASCAR. Ancora oggi poi, nel terzo giro di ogni gara vi è l’usanza tra gli spettatori di mostrare le tre dita mentre contemporaneamente, sempre in quella particolare tornata, i telecronisti rispettano un rigoroso e rumorosissimo silenzio. Lo stesso numero 3 poi venne ritirato dal team, almeno fino a quando venne concesso ad Austin Dillon nel 2014.
Allora forse, ripensandoci, il ricordo va a quel tabellone, quello che aveva dato Earnhardt in dodicesima posizione. Solo un computer nella sua insensibile e fredda misura, può rendere l’onore e la reverenza ad un mito il cui tramonto, la cui memoria non potrà mai esser dimenticata.
Rest in Speed, Intimidator