A volte dalle piccole cose si può risalire alle grandi, e dai minimi scorci puoi scoprire panorami grandiosi: è quello che accade, per esempio, a chi, sull’Aventino, sbircia dal buco della serratura del portone del Priorato dei Cavalieri di Malta, e si trova di fronte la cupola di S. Pietro che fiorisce dal tessuto di monumenti, di palazzi e di chiese della Città Eterna.
E’ un po’ quello che è accaduto appena si sono spente le luci della ribalta sanremese, con le polemiche dopo la discussa vittoria del brano di Mahmood, giovane cantante di origine egiziana per parte di padre, perfettamente integrato, a quanto si sa, nella realtà italiana (al punto di vincerne la massima manifestazione canora, da sempre specchio del costume nazionale).
I fatti sono noti: la giuria popolare aveva assegnato la vittoria con largo margine al brano presentato da un giovane romano di borgata, ma il verdetto è stato capovolto dalla giuria composta da uomini e donne di spettacolo, per lo più assolutamente inesperti in materia di musica leggera, ma tutti rigorosamente in linea antigovernativa. In definitiva, si è trattato dell’ennesima prova dello strapotere – e del distacco – di una delle élites che, in ogni campo, dominano la vita del paese, in assoluto dispregio delle istanze popolari, anche quando si tratta di canzonette. Per inciso, è stato fatto notare che mentre il televoto era a carico dei singoli telespettatori votanti, ai giurati veniva corrisposto un congruo cachet. Ma questo è il meno.
Era troppo ghiotta l’occasione di un sberleffo all’odiato Salvini: un immigrato di seconda generazione, con un nome inequivocabile – “degno di lode”, dalla stessa radice di Maometto – vince il festival di Sanremo, e se non lo decide “il popolo”, lo decidiamo noi “pochi felici”, noi beneficati dalle sovvenzioni pubbliche, dalla RAI pubblica, dagli editori sovvenzionati in diverso modo dalla mano pubblica. E dire che, ancora una volta, in occasione delle contemporanee elezioni regionali in Abruzzo, la maggioranza degli elettori italiani si è confermata di centrodestra…
Ma che importa: altri dispettucci e, soprattutto, altre iniziative non-politiche, verranno ordite per far cadere il governo gialloverde e, soprattutto, per intralciare l’avanzata della Lega. Si sa: chi governa, di solito perde consensi, essendo costretto a confrontarsi con la difficile realtà e, quindi, a scontentare molti gruppi sociali, senza poterne accontentare a sufficienza altri; ebbene, in questi otto mesi di governo, se i Cinque Stelle hanno visto erodere la propria base di consensi, la Lega ha fatto registrare, ora anche in una consultazione elettorale e non più solo nei sondaggi continui, un’imponente crescita di consensi.
Tranelli e imboscate, dicevo: la vicenda giudiziaria della “Diciotti” è una di queste, con le sue implicazioni parlamentari; le manovre della finanza internazionale (e le pressioni dell’UE) ne costituiscono un altro capitolo; ora, sono tornati in piazza anche quelli della Triplice, inerti e silenti di fronte allo sfacelo dell’epoca Monti-Renzi-Gentiloni, specie in materia di pensioni e lavoro.
Il metodo ha già dato frutti contro Berlusconi, alla fine disarcionato dopo il lungo assedio giudiziario; ma si trattava di frutti avvelenati. Dovrebbe essere storicamente chiaro che polarizzare l’attenzione – e gli strali – contro un Nemico, paga nel breve periodo, ma non consente la formazione di articolate, omogenee proposte politiche alternative. Il disastro del Partito Democratico ne costituisce la riprova. Non basta essere “anti”: bisogna convincere il “popolo” – non le istituzioni asservite alla cultura dominante di questo dopoguerra, non i mass media (idem come sopra), non i cosiddetti “poteri forti” – con praticabili ipotesi di futuro, cercando di mettersi in sintonia con il comune sentire.
E questo comune sentire sembra essere intercettato sempre più dalle forze politiche che incarnano una certa declinazione del sovranismo e del populismo, fatta di orgoglio della propria identità, d’intolleranza verso le crescenti disuguaglianze, di asservimento a politiche estere che non fanno gli interessi della nostra patria italiana. Lo stesso confronto con altri popoli – europei e non – e con altre culture (a partire da quella islamica) può e deve essere utilmente sviluppato solo da posizioni di piena consapevolezza delle rispettive differenze, da valorizzare, da armonizzare, ma non certo da disconoscere o addirittura condannare.
Fino ad ora, su questa linea sembra che abbia vinto la cultura dell’esperanto, quella che predica l’abolizione di tutte le frontiere, non solo linguistiche, nel nome di un’uguaglianza – contro la natura e contro la storia -di costumi, di sesso, di religione. Dall’Italia partono i primi segnali di una riscossa: cerchiamo di non farli cadere nel vuoto, magari litigando per il proprio orticello o agitando vecchi e superati rancori, nel nome di un malinteso e superato “meridionalismo”.
Gran parte delle canzoni che sono state ammesse al Festival di Sanremo non erano “da festival” e di italiano avevano solo le parole. Mi riferisco alle tante “canzoni” di genere hip-hop o trap (di importazione afroamericana), tra cui la stessa “canzone” che ha vinto l’edizione 2019, che nulla hanno a che vedere con lo stile musicale italiano. E’ chiaro che la giuria d’onore e i giornalisti che con i loro voti hanno fatto vincere l’egiziano, tutti radicalchic e totalmente incompetenti in materia di musica, hanno scelto lui per ragioni ideologiche piuttosto che per la qualità del brano, assolutamente discutibile. Ma vorrei ricordare che in altre edizioni, il televoto ha permesso a canzoni stupide di poter vincere il Festival. Quindi, più che modificare i meccanismi del voto, in realtà andrebbero fatte selezioni più idonee rispetto ai brani che devono partecipare al Festival, in linea con lo stile musicale italiano di tipo pop, non queste schifezze di genere trap, che sono anti-musica.