Con un articolo di Sergio Romano, ambasciatore e fine analista di politica internazionale, il Corriere della Sera ha colto come il ruolo della Nato, alleanza costruita in chiave anti-russa, costituisca sempre più un elemento di instabilità nei rapporti tra Europa e Russia: da qui la riflessione sulle sanzioni contro Mosca che penalizzano pesantemente la zoppicante economia italiana. Prima o poi gli europei dovranno scegliere tra gli equilibri del novecento e la necessità di stabilire nuove coordinate geopolitiche per gli anni a venire. ***
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Le sanzioni che hanno colpito Mosca dopo l’annessione della Crimea nel 2014 hanno certamente danneggiato i Paesi (fra cui l’Italia) che avevano con la Russia un forte rapporto commerciale. Il nostro intercambio è diminuito del 27% e le importazioni sono passate dai 14 miliardi di euro del 2015 a poco più di 9 nel 2017. Ma questi dati, insieme all’importanza che le sanzioni hanno assunto nel dibattito politico prima e dopo le ultime elezioni italiane, hanno avuto l’effetto di alterare, agli occhi della pubblica opinione, i termini della questione. Ormai si parla delle sanzioni, in molti ambienti, come se questo fosse il nodo da sciogliere e bastasse la loro revoca per tornare alla normalità.
Il commercio ne trarrebbe qualche vantaggio, da una parte e dall’altra, ma il vero problema concerne l’Unione Europea e ha dimensioni alquanto diverse da quelle di un semplice rapporto commerciale. La fine dell’Unione Sovietica e le privatizzazioni decise dai governi post-sovietici hanno schiuso porte e aperto spazi che molte aziende e istituzioni finanziarie hanno sfruttato con qualche successo. Ma questo accadeva negli anni in cui Boris Eltsin permetteva che l’economia nazionale e le ricchezze naturali del Paese divenissero terreno di caccia per un’orda di moderni boiari. In quelle circostanze sarebbe stato molto difficile impostare con la Russia un rapporto organico di lunga durata, fondato su regole condivise e rispettate. La situazione divenne più promettente quando Vladimir Putin fu chiamato alla direzione del governo e, successivamente, alla presidenza della Repubblica.
Non tutti gli oligarchi uscirono di scena, ma era interesse comune della Russia e dei Paesi dell’Unione Europea, in quel momento, sfruttare la complementarietà delle loro economie. Il problema non era soltanto commerciale. L’Europa poteva fornire una cultura economica e un patrimonio tecnologico di cui la Russia era quasi completamente priva, e gli industriali italiani, in particolare, avrebbero portato con sé il lievito della piccola impresa. In ultima analisi l’avvento di una democrazia meno avara e meno razionata dal potere centrale di quanto sia quella della Russia post-sovietica dipende soprattutto dalla crescita di un ceto economico composto da piccoli imprenditori, interessati alla conservazione e alla crescita dei loro beni.
Questo non è avvenuto perché gli Stati Uniti hanno deciso di allargare la Nato a tutti i Paesi che avevano fatto parte del blocco sovietico; mentre la Russia, come nelle sue tradizioni, reagiva accentuando il controllo politico sulla propria società. È certamente vero che occorreva dare a quei Paesi, dopo l’esperienza comunista, una nuova collocazione internazionale. Ma la Nato non è una semplice alleanza politica. È un’alleanza concepita per fare la guerra e gestita da persone (il segretario generale e il comandante supremo) che non perdono occasione per indicare nella Russia il probabile nemico di domani. La Nato presenta oggi un doppio inconveniente. È un obiettivo ostacolo alla nascita di una politica militare europea e non permette all’Ue di avere con la Russia una politica economica corrispondente agli interessi di molti suoi membri. (dal Corriere della Sera)