Trent’anni fa, il 18 gennaio dell’89, Bruce Chatwin cominciava il suo Grande Viaggio dopo la vita. Chatwin non è uno scrittore ma uno stato d’animo che si è fatto zaino di cuoio, piedi, occhi e visione del mondo. Il fascino di Chatwin eccede quello dei suoi stessi libri, il suo mito scavalca le sue opere. Chatwin è forse l’unico autore che si lascia amare non per i libri, pur amatissimi e fascinosi, ma per il candore avventuroso dei suoi sguardi alla vita, alla terra, ai popoli; e per i suoi passi verso l’originario, per il caldo e il freddo che avvertiamo con lui, per la passione del sole, del sud e del lontano, il suo “rinomato sguardo azzurro acido” come egli stesso scriveva. Ma concorrono al mito anche la sua morte precoce, le leggende e le dicerie, l’icona del suo volto come quello di un Che Guevara biondo che non sogna la rivoluzione ma cerca, in solitudine, l’essenza divina nella vita errante.
Chatwin è diventato metafora dell’irrequietezza e allusione a una vita ubiqua. Chatwin è la Patagonia, l’India e l’Australia, ma anche il Mediterraneo e la Grecia. Nei titoli delle sue opere, anche postumi, c’è già il suo mito e il suo programma di vita: Le vie dei canti, Anatomia dell’irrequietezza, Che ci faccio qui? che è diventato il blasone dell’erranza ma la sua origine – oltre Rimbaud – è in una battuta di De Gaulle a Churchill durante il suo esilio a Londra che Chatwin cita. La vita e le opere di Chatwin sono disseminate nel paesaggio; Bruce si sparge nel mondo, nei luoghi che vede, nelle persone che incontra, nelle atmosfere che descrive. Volano le sue pagine nell’aria, si slegano dal dorso e dall’autore e vivono e respirano tra gli alberi, nei sentieri, nella luce e nel mare. “Vedo le vie dei Canti che spaziano per i continenti e i secoli. Uomini che hanno lasciato una scia di canto ovunque sono andati”.
Mi sono perso nelle sue lettere e nella sua vita, raccolte ne L’Alternativa Nomade. È la parabola di un ragazzo di otto anni che si conclude con un ragazzo di 48anni, lo stesso stupore nei suoi occhi celesti. Una parabola che segui con crescente pathos fino alle ultime dolorose lettere; la sua malattia, il suo disperato ottimismo, la sua fede sorgiva e la sua morte. Con lo stesso titolo, che è poi di un’opera irrealizzata di Chatwin, uscì in Italia la biografia di Nicholas Murray. La promessa della sua vita è in tre righe scritte a Michael Cannon: “Cambiare è l’unica cosa per cui vale la pena vivere. Mai passare la vita seduti a una scrivania. Provoca ulcere e mal di cuore”.
Ci sono scrittori che funzionano solo a domicilio, con la seggiola giusta, gli scaffali di libri e dizionari, e ora un computer; e ci sono altri come lui, che invece scrivono solo quando sono immersi nella vita e camminano nel mondo. E le pagine sono passi. L’intera sua esistenza, con la sua opera, è condensata in una lettera a Tom Maschler, pubblicata nell’Anatomia dell’irrequietezza. Dopo aver confessato la sua impossibilità di stare un mese nello stesso posto, Bruce così descrive la sua dromomania: “Non ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali… ma poi sono tirato indietro da un desiderio di casa. Ho una coazione a vagare e una coazione a tornare – un istinto di rimpatrio, come gli uccelli migratori”. In un libro-intervista rilasciata ad Antonio Gnoli, La nostalgia dello spazio, Chatwin dice: “Il ritorno offre una pienezza di senso che l’andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza”. L’andare e il tornare come inspirare ed espirare, moti vitali per dare fiato alla vita e anima al corpo… Chatwin diceva che anche gli aborigeni australiani dopo aver errato lungo tutto l’anno, tornavano a intervalli stagionali nei loro luoghi sacri per riprendere contatto con le radici ancestrali, fondate sul tempo del sogno. Un modello di vita arcaico ma che si addice bene all’età della globalizzazione: nomadi e spaesati, avremo sempre bisogno di un luogo che avvertiremo come la nostra casa e la nostra radice autentica, dove abita la nostra origine e palpita il nostro sogno iniziale. Sarà la musica a riportarci a casa come insegna la via dei canti.
Chatwin detesta l’Europa opulenta che si va a suo dire “maializzando”, sempre più grassa e sempre più inerte, ottusa. Non aveva visto l’ulteriore involuzione obesa degli americani, seguiti in Europa dai tedeschi. “L’involuzione culturale è dieci volte più rapida di quella genetica”. Ma Chatwin parla con disprezzo pure “dell’allegra cultura hashishistica” degli hippie per i quali auspica la galera, smentendo le improprie associazioni di idee tra lo statuto di nomade a piede libero e quello di consumatore d’erba. C’è un fondo di ascetismo nel suo viaggiare, c’è la sorpresa e il mistero del luogo. Nel viaggio Bruce non cerca come loro l’allucinazione e l’utopia ma la radice vera e profonda della realtà, la verità della vita, rispondendo alle sue molle interiori. Cerca i nomadi “per sete di Dio”, annota in un taccuino quando si rifugia in un convento sul Monte Athos e partecipa toto corde alla vita monacale e ha un’esperienza spirituale così profonda da non riuscire a scriverne. Le sue pagine migliori, le più intense, sono forse quelle che non scrisse. Ci sono esperienze che non si possono tradurre in arte e in parola senza falsarle.
Chatwin ha un rapporto controverso col giornalismo, scrive articoli “alimentari” come li definiva Prezzolini; detesta “l’iridescente mediocrità” della stampa e la condanna all’oblio delle idee buone mescolate alle cattive. Ma, aggiunge, c’è da considerare l’affitto e i beveraggi… Però riconosce che il giornalismo insegna a uno scrittore l’indispensabile arte della condensazione e la tecnica del cacciatore di storie. Comunque la scaturigine utilitaristica, la motivazione economica, non toglie qualità e passione ai suoi reportage.
Le lettere più struggenti sono quelle che precedono la morte, lettere avvolte nella malattia negata, l’Aids, nel desiderio di tutelare i suoi famigliari dalla verità sulla sua omosessualità e nei propositi di riprendere a viaggiare, mutando vita. C’è tutto il suo desiderio di donare, di pregare, di credere, di compiere esorcismi e atti votivi per guarire miracolosamente. “Spero d’essere stato martoriato da Dio” scrive a Gertrude Chanler, annunciando d’aver compiuto il salto nella fede, portando così a compimento il suo itinerario imperdonabile. Rimpiange che non sia diventato monaco, si professa credente nel rito orientale dei cristiano-ortodossi e annuncia di voler devolvere tutti i suoi beni agli ammalati. Estremi atti per propiziare celeste benevolenza su di lui. Una messa greca accompagnò la sua cremazione. Era il 18 gennaio del 1989 quando i suoi viaggi mutarono direzione ed ebbero per destinazione le vie del cielo, lasciando lungo il passaggio una scia di canti.