Se ci si scandalizza per gli ululati xenofobi all’indirizzo di Kalidou Koulibaly e degli altri calciatori di colore che militano nel campionato di calcio italiano, come si dovrebbe reagire, almeno da parte delle autorità sportive e di quelle politiche del nostro Paese, quando Juventus e Milan accettano la generosa offerta del Regno dell’Arabia Saudita, uno degli Stati canaglia per eccellenza, di disputare a Gedda la finale di Supercoppa italiana? Ci sarebbe un solo modo: declinare il gentile invito, perché l’inospitale regime è uno dei peggiori spregiatori dei diritti umani, sostenitore del terrorismo islamista, aguzzino tra i più celebrati degli oppositori della dinastia degli Al Saud.
All’onnipotente e cinico erede al trono, ma di fatto già regnante, principe Mohammed bin Salman, accusato tra l’altro di essere l’ispiratore ed il mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Kashoggi, andrebbe data una risposta che forse gli lascerebbe il segno : negargli una così prestigiosa occasione, come la competizione tra due delle squadre più note al mondo, per mettersi in mostra e rifiutare, con un po’ d’orgoglio, la sua non disinteressata “elemosina”. Sarebbe uno “schiaffo”, indubbiamente, al quale andrebbe aggiunto un piccolo accenno alla questioncella della separazione tra uomini e donne allo stadio (queste ultime, rigorosamente “ghettizzate”, sono peraltro state autorizzate da poco ad assistere alle competizioni sportive) decretata dall’ineffabile principe per godersi Ronaldo e Higuain. L’erede al trono si adonterebbe? Poco male. Tanto non capirebbe comunque che con le canaglie i Paesi seri affari – soprattutto sportivi – non dovrebbero farne.
E se proprio i responsabili della Lega calcio, non dovessero convincerlo delle ragioni italianeu, qualcuno potrebbe sempre fargli recapitare, attraverso i canali diplomatici, il rapporto mai smentito dello studioso francese Jean-Charles Brisard, presentato nel 2002 al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, esplicitamente intitolato “Terrorism financing. Roots and trends of Saudi terrorism financing”.
Se non bastasse ancora, gli si potrebbe far presente che gli italiani, per quanto malmessi, da tempo non tollerano che si commini la pena di morte come se fosse una sanzione amministrativa, né discriminazioni delle minoranze etniche e religiose ed ancor più sono fermamente ostili alle guerre di sterminio come quella che il giovane aristocratico (si fa per dire) saudita conduce contro lo Yemen.
Altro che Supercoppa. I delitti sauditi non valgono i 23 milioni di euro stanziati da Mohammed bin Salman per ospitare tre delle cinque finali della competizione calcistica; né i sette milioni di euro che Juventus e Milan si spartiranno, dopo aver dato luogo allo spettacolo, con tanti ringraziamenti alla munifica Arabia Saudita. Fino al 16 gennaio, data fissata per la gara che si annuncia affollatissima (in tre giorni sono stati già venduti 50 mila biglietti e lo stadio di Gedda ne può contenere diecimila in più: il sold out, dunque è assicurato), c’è tempo per ripensarci. Qualsiasi contratto può essere annullato. Dubitiamo che accada in questa circostanza. Il presidente della Lega calcio, e vice-presidente della Federazione Gioco Calcio, Gaetano Micciché, intervenuto sulla questione, ha detto, tanto per giustificare l’ingiustificabile scelta di giocare a Gedda : «Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche, soprattutto nelle relazioni internazionali, diverse da quelle del Paese a cui appartiene. L’Arabia Saudita è il maggior partner commerciale italiano nell’area mediorientale grazie a decine di importanti aziende italiane che esportano e operano in loco, con nostri connazionali che lavorano in Arabia e nessuno di tali rapporti è stato interrotto. Il sistema calcio non può assurgere ad autorità sui temi di politica internazionale, né può fare scelte che non rispettino il sistema Paese. Al contrario, è un fondamentale supporto alla promozione del Made in Italy e dei suoi valori». Il calcio è una merce, insomma. Lo sospettavamo da tempo, a dire la verità. E forse questo è uno dei motivi della sua decadenza. Non soltanto in Italia.
Ognuno valuti come vuole le alate parole del dirigente sportivo e ne tragga le conseguenze.
Intanto ci chiediamo – e non da oggi – per quale motivo, al di là delle “nobili” ragioni economiche finanziarie, l’Italia debba esportare il suo calcio all’estero quando si tratta di giocare una competizione, come la Supercoppa, che carattere più “nazionale” non potrebbe avere. E’ la decima volta che accade. In precedenza si era disputata a Washington nel 1993, a Tripoli nel 2002, a New York nel 2003, a Pechino in tre edizioni (2009, 2011 e 2012), a Doha in due occasioni (2014 e 2016) e a Shanghai nel 2015. Gli affari sono affari, si dirà. Qualcuno potrebbe aggiungere che è lo “spirito dei tempi”. Lo spirito dell’avidità.
Di Stati canaglia ce ne sono molti, Malgieri lo sa eppure non si fa tanto gli schizzinosi….