Per fare i conti con la propaganda anti-italiana e con un certo cosmopolitismo caviar. Ma anche per disegnare un possibile itinerario di ridefinizione dell’identità italiana al tempo della “grande sostituzione”, con una prospettiva che da culturale ha tutte le potenzialità per diventare politica. Adriano Scianca, direttore del Primato nazionale e firma de La Verità (per un periodo anche commentatore di punta su Barbadillo), ha curato un saggio prezioso, “La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia” per Altaforte edizioni: è un viaggio millenario, tra riferimenti mitici, storici, esoterici ed eminentemente politici. Ogni traccia o citazione è un invito ad approfondire e ampliare la ricerca per il lettore. L’italianità ne viene fuori così come qualcosa di antitetico rispetto alle retoriche imbalsamatrici, fino al tentativo di rianimare la memoria patriottica risorgimentale e della prima guerra mondiale, anestetizzata da celebrazioni istituzionali viziate da un deprecabile e surreale moto di pacifismo antipatriottico (il centenario è da considerare una occasione mancata e di questo bisogna prenderne atto: di fatto è stato silenziato un mito fondante di coraggio e arditismo).
Scianca assembla una narrazione che è l’opposto della decostruzione dell’immaginario nazionale, un lavoro arduo, perché osteggiato da un mondo culturale per la gran parte asservito a logiche che saldano la cessione di sovranità, con l’annacquamento delle identità e una sudditanza ai poteri sovranazionali e finanziari. E così il richiamo al “fato” del titolo è la chiave che rigenera l’arcaismo fondante, l’Italia come destino con la sua funzione civilizzatrice dei popoli e con l’orizzonte imperiale che da Roma si dovrebbe irradiare in tutto il Mare nostrum (e qui è puntuale il collegamento con la visione geopolitica dell’intellettuale fascista Berto Ricci, analizzata magistralmente da Mario De Fazio in “Tempo di sintesi” per Idrovolante).
La ricerca sulle origini, che incrocia i migliori studi tradizionali (di cui Sandro Consolato è uno dei riferimenti) non scade mai nel citazionismo, ma accompagna il lettore in un itinerario di riscoperta delle radici e non è un caso che l’analisi segua la perfetta quadripartizione tra nome, terra, popolo e lingua, punti cardinali della ridefinizione identitaria. Poi c’è la declinazione politico-letteraria con pagine dense su Dante Alighieri, Giacomo Leopardi e Gabriele D’Annunzio, fino alla sublimazione della modernità italiana sintetizzata dalle intuizioni della rivista “L’Universale” di Berto Ricci e dalla codificazione del “patriottismo verticale”, secondo le coordinate di Pio Filippani Ronconi: “amare la propria patria – scrive Scianca – significa saperla trascendere, non, ovviamente in un fumoso e pericoloso cosmopolitismo che abbraccerebbe il mondo intero, tutto con pari enfasi e dignità: trascendere la patria significa avere la capacità di guardarla dall’alto, di amarla in una visione stellare, dalla quale tuttavia si sia capace di scorgerne i difetti, le inclinazioni da correggere, il suo posto nel mondo e i suoi limiti”. E per questo ogni rievocazione di radici arcane non è mai esercizio patriottardo, ma richiamo alle energie più profonde di un popolo, sempre più messo a rischio dai nuovi totalitarismi digitali da contorni tutti da scoprire.
*La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, Altaforte edizioni, pp. 185, euro 18
Ma ci crediamo sul serio a quell’espressione geografica e letteraria diventata nazione più per casualità e diplomazia internazionale che per un vero, profondo sentire popolare, che si vergogna persino di celebrare il 4 novembre, dominata dal 1945 da una classe politica fortemente antinazionale (cattolico sociale e comunista), possa raccattare da qualche parte ragioni e forze per invertire la rotta rovinosa (certo figlia della sconfitta del ’43 in primo luogo) e riscoprire un senso minimo di comunità organizzata, se non di Heimat?
Per Fichte la nascita della nazione non è altro che la libertà della stessa di esprimere la propria identità; perciò la nascita della nazione tedesca coincide con la lotta delle tribù germaniche ai Romani che tentavano di omologarle alla loro cultura e cancellarne l’identità: “Libertà significava per loro rimanere tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito”. Dunque, per l’autore del “Discorso alla nazione tedesca”, scritto all’apice dell’egemonia napoleonica, popoli politicamente oppressi devono prima costruire la propria identità, difendendo il linguaggio e la storia nazionale, e poi pensare alla lotta per la libertà politica. Ma tutto ciò si può fare due volte?