Il “cittadino del mondo” è sempre meno convinto della sua asserzione e ritorna a considerarsi l’essere parte di una comunità specifica. L’ideale, aleatorio, di poter congiungersi con le culture e sub-culture più disparate, quel convivere indossando un abito troppo grande per lui che dimostrerebbe di far parte di ogni luogo ma, senza in realtà capirci poco dell’Altro, risulta essere l’ennesimo congratularsi con sé stesso in un «Luogo» che è anche la città. Il singolo cede il posto al plurale, l’individuo è come se camminasse in una strada affollata, puntando il naso all’insù per vedere la sommità dei grattacieli; decidendo autonomamente di fermarsi e ragionare. Ebbene sì, anche la città pur essendo bistrattata ed esaltata, può far riflettere sulla separazione che divide l’uomo dalla velocità della globalizzazione, ridestando le particolarità di un criterio di vita completamente diverso.
Come direbbe Zygmunt Bauman, l’umanità alla fine della post-modernità, può scegliere di abbandonare il «risultato di convenzione sociale e di addestramento individuale», riformulandoli e gestendoli non passivamente. Ma dalle cronache dell’ultimo passaggio dell’uomo del “villaggio globale”, narratoci per la prima volta nel libro The Medium is the Message di Marshall McLuhan, la standardizzazione della cultura e la spregiudicatezza del voler eliminare i confini, solleva tutt’oggi il problema dell’efficacia di una critica serrata al globalismo. Forse perché il libro di McLuhan, concentrandosi troppo sulla comunicazione moderna ha trascurato l’ambito geografico e l’impatto delle esternalità economico-sociali. Le quali, non dimentichiamolo, determinano una differenza fra aspetto privato e aspetto sociale, soprattutto in Europa.
I media, invece, leggono un paesaggio che prende forma nella convinzione che questo non sparisca improvvisamente alle loro spalle. Allo stesso modo dei quasi ex “cittadini del mondo”, né più né meno di un gioco online di strategia e di una simulazione della realtà, sempre più omogeneizzata e distaccata da una prosperità, inesistente. Ed è così che da Washington ad Anadyr’, per le questioni economiche non regolamentate dalla politica, viene impiegata una lingua comune per il commercio e per l’informazione che richiede, una rielaborazione dell’inconscio sulla necessità di un’apertura culturale. Vale a dire, l’indefinito sconosciuto e interminabile, che diventa il paradosso di una devozione assoluta della competizione. L’informazione ed i fruitori delle notizie, in simbiosi tra loro, divengono così il veicolo di una proceduralità degli eventi, visti solo attraverso la lente d’ingrandimento dello scambio rapido e dell’immediatezza.
In questa società, è facile dedurre il fallimento della ricerca dell’equilibrio tra egoismo e altruismo. Uno dei chiodi fissi del pensiero di Herbert Spencer e del suo “sentimento condiviso”, improntato sul ridurre l’egoismo, mescolandolo fino a farlo coesistere insieme all’altruismo in modo equo. Ma il “cittadino del mondo”, conscio ormai di essere solo uno spettatore molto disponibile a spingere in avanti la macchina-società messa in piedi dal capitalismo, ha incluso nei suoi ragionamenti la possibilità che tutto questo sia servito solo ad innalzare il tasso di personalismo per uno scopo ben preciso. L’amarezza e lo scoramento sono predominanti. Soprattutto, nello scoprire nei partecipanti al “girotondo più bello del mondo”, l’estenuante lotta di un individuo spinto a rappresentare un generalismo e/o appiattimento e, quanto sia difficile per esso, riuscire a rappresentarsi in modo credibile e ad dare adito alle speranze instillate nell’individuo.
L’esercito dell’ideologia dei diritti umani che si identificava in questa conquista “politica”, in pratica nel mezzo dell’autoconservazione di una élite che spinge all’utilitarismo razionale ed al darwinismo sociale, pensa di eludere gli ostacoli contrapposti al libero sviluppo e alla crescita indefinita che intacca lo Stato a svantaggio del pubblico. Non curante di essere diventato sempre più una guarnigione, smobilitata da un declino evidente. Ed è proprio l’aumento degli interessi privati e delle pressioni sugli enti pubblici, a spingere il “cittadino del mondo” a tornare sui suoi passi. In ballo c’è la salute e gli effetti indesiderati della globalizzazione del “benessere”. La «globalizzazione della psiche» e del consolidarsi di un mercato globale che ha incrementato le patologie mentali quali sono la schizofrenia, i disturbi depressivi, l’ansia, lo stress, l’anoressia e la bulimia. Senza contare le malattie degenerative nella società del “benessere “che ci impongono di riflettere sul nostro Zeitgeist, ovverosia lo spirito del tempo.
Un messaggio che non coglie di sorpresa la città che condivide improvvisamente, alcune delle stesse pulsioni della campagna. Nonostante siano divise dalla discrepanza di un ‘sentiero’ che non sarà certo quello descritto da Heidegger (Il sentiero di campagna). Dopo tutto, le voci che convivono nelle metropoli hanno un modo diverso di farsi sentire. Ma ciò non significa che siano meno importanti.
Tutto vero, ma che si fa? Se alle nostre elementari gli italiani non sono più del 20% degli alunni…a volte meno…Bisognava presidiare e difendere il ‘territorio’ non farci invadere richiudendoci nelle nostre tane, come stupide marmotte…e poi scopare, procreare, non farsi pippe al computer…
Cittadini del mondo lo si è per il fatto stesso che si è abitanti del pianeta Terra, ma non per questo si deve rinnegare la propria identità etnorazziale e linguistica, e il proprio Stato di appartenenza. Il mondo è bello perché vario, e non va omologato.
Sì, Werner, è vero. Ma chi si cura veramente della nostra identità? A chi interessa sul serio? Perchè i nostri figli, potendo le famiglie, preferiscono studiare all’estero e poi magari lavorare all’estero? Cosa che 50 anni fa non succedeva?
@golfanora: Della nostra identità non gliene frega niente a nessuno, neppure a quelli che dicono di volerla difendere. Sul fatto che oggi la maggior parte dei giovani preferisca studiare o lavorare all’estero, sicuramente è dovuto al fatto che sono plagiati mentalmente dall’ideologia mondialista e globalista propagandata dai mass media, e poi anche perché purtroppo oggi come oggi l’Italia non offre possibilità lavorative interessanti.
E non solo lavorative. L’Italia sta diventando una fogna a cielo aperto, nella accidiosa incompetenza dei governanti e nell’abissale menefreghismo suicida dei governati…Ma nessun plagio: si lascia l’Italia (questa Italia, dal 1993 in poi, per semplificare), perchè se ne hanno le scatole piene di mancanza di prospettive, chiacchiere vuote, insicurezza, inefficienza dei servizi e prepotenze di ogni genere…
E gli uomini scappano anche dalle donne italiane, (a volte finendo male come l’avvocato torinese a Maceió…), sovente pesanti, rompiscatole, con la testa colma di diritti d’ogni genere e pretese d’ogni specie, volgarotte, buone a nulla e capaci di tutto, pur di farti girare i cabasisi e metterti in croce…