È passato quasi nel silenzio il quarantennale della scomparsa di Giuseppe Berto, uno dei maggiori romanzieri italiani del secondo dopoguerra. Non credo che gliene sarebbe fregato molto. Berto aveva, nei confronti della società letteraria, nei suoi begli anni assai più potente e stimata di oggi, una sorta di beffarda sprezzatura, che lo spinse a mettersi in rotta anche col papa laico della cultura di sinistra, Giorgio Moravia, rinfacciandogli alla Libreria Einaudi di Roma, di avere perorato in un importante premio letterario la causa di Dacia Maraini, per meriti che eufemisticamente si potrebbero definire metaletterari.
Non l’avrebbe stupito nemmeno che il solo quotidiano nazionale ad averlo commemorato sia stato “Il Fatto”, ma ricordandolo più che altro come un caso clinico, con un articolo firmato da uno psicanalista, Mario Montanari: il paziente è prevalso sullo scrivente. Berto andò in effetti in terapia e alla depressione è dedicato uno dei suoi maggiori successi, Il male oscuro. Del resto, lo scrisse chiaramente: “Ai miei esordi di scrittore, dissero che ero un dilettante. Poi ho continuato a scrivere, e hanno detto che sono pazzo.” È onesto aggiungere che talora non fece molto per smentirli.
Notizie dettagliate sulla vita e la fortuna letteraria di Berto, nato nel 1914, figlio di un carabiniere che per amore della futura moglie aveva rinunciato all’amata uniforme, sono reperibili su siti internet attendibili, dall’edizione on line del Dizionario biografico degli italiani all’onesta voce uscita su Wikipedia. Però su alcuni aspetti della sua esperienza biografica e narrativa è giusto soffermarsi. Studente indisciplinato e dispersivo, Berto fu patriota e fascista in gioventù; ufficiale pluridecorato del Regio Esercito si arruolò nella Milizia per essere spedito prima al fronte. I nastrini e le medaglie sulla divisa l’aiutarono più degli studi a laurearsi in Lettere. Catturato dagli statunitensi dopo la battaglia del Mareth, con cui finì la nostra resistenza in Africa, fu prigioniero non collaboratore nel campo di Hereford, nel Texas, in compagnia di futuri deputati del Msi, come Gianni Roberti e Roberto Mieville, di pittori astrattisti come Burri, di futuri redattori dell’“Avanti!” e fini narratori come Gaetano Tumiati. Mentre, un po’ per fede un po’ per tigna, resisteva alle proposte di collaborazione, che l’avrebbero portato fuori dal “criminal fascist camp”, cominciò a scrivere, vincendo l’ozio forzato del campo di concentramento (le convenzioni internazionali non prevedevano per gli ufficiali l’obbligo del lavoro). Da quegli scritti nacque il suo primo capolavoro: Il cielo è rosso, che in realtà, nelle sue intenzioni, si sarebbe dovuto intitolare La perduta gente. Fu Leo Longanesi – su consiglio anche di Comisso – a scoprire quel libro, che tanti editori prima di lui avevano rifiutato, e a imporgli d’autorità quel titolo, che però, come lo stesso Berto riconobbe, fu una delle cause della sua fortuna. La migliore definizione del contenuto la diede, con l’usuale gusto del bon mot, lo stesso Longanesi: l’Italia della Resistenza raccontata da un centurione della Milizia.
Ho provato a rileggere quella storia di ragazzi sradicati in un Paese distrutto e ho incontrato molte difficoltà. Ma lo stile crudo, non privo di un afflato cristiano, di una sofferta empatia con gli umili, rese il romanzo un successo nell’Italia del neorealismo, nonostante che Berto, più che neorealista, amasse definirsi neoromantico. Le prove immediatamente successive non furono all’altezza, come capita spesso agli autori che esordiscono nella repubblica delle lettere con un grande successo; anche da quello derivò il silenzio di Berto, o il suo ripiegarsi sulla memoria, come in un libro, Guerra in camicia nera, pubblicato proprio quando tutti gli scrittori si affrettavano a “cancellare le tracce”.
Il successo ritornò, con Il male oscuro, uscito nel 1964, e fu in parte replicato col romanzo La cosa buffa. Il male oscuro, innovatore con la sua prosa, come ha scritto Giorgio Pullini, “fitta, senza punteggiatura, fluente come il flusso di coscienza che affiora sul lettino dello psicanalista”, meritava l’apprezzamento che ottenne. A contribuire alla sua fortuna, di critica e di pubblico, fu anche l’interesse per le tematiche psicanalitiche di un’Italia che, dopo aver colmato col miracolo economico la sua fame secolare, cominciava (ahimè) a porsi i problemi dell’incomunicabilità con i noiosissimi film di Antonioni, e a leggere Freud.
Seguirono anni con alterni risultati, in cui Berto associò a concessioni alla letteratura di consumo, con Oh Serafina! e la sceneggiatura del fortunatissimo Anonimo veneziano, saggi di spessore quasi teologico, come La gloria, con la sua rivisitazione del personaggio di Giuda. Anni in cui lo scrittore si misurò anche con la saggistica, con un pamphlet, intitolato Modesta proposta per prevenire, che solo in parte convinse Gianfranco de Turris, ma soprattutto con la partecipazione al primo Congresso per la difesa della cultura – Intellettuali per la libertà, organizzato per denunciare il monopolio culturale della sinistra, in compagnia fra gli altri del drammaturgo Eugène Jonesco, dell’artista e polemista pistoiese Sigfrido Bartolini, dell’economista Sergio Ricossa e dello scrittore romeno Vintila Horia.
Berto non era certo un intellettuale organico della destra, anzi si compiaceva di essere considerato fascista dai comunisti e viceversa (“Sono un isolato. Non sono un fascista, ma non sono nemmeno un antifascista”, diceva). Ma resta il fatto che quella che egli chiamava la mafia di Moravia non gli perdonò mai le sue intemperanze e che fu un intellettuale di destra come Alfredo Cattabiani a farlo entrare nella scuderia della Rusconi Libri; per non parlare di una foto ce lo ricorda sorridente accanto all’indimenticabile Francesco Grisi, il vulcanico calabrese fondatore del Sindacato liberi scrittori, nato per contrastare l’egemonia culturale della sinistra. In realtà, l’autore del Male oscuro restò sostanzialmente, come dicono i francesi, “un anarchiste de droite”, un individualista difficilmente intruppabile, come il suo talent scout Longanesi; e la sinistra gliel’ha fatta pagare. Da vivo e, a quanto pare, anche da morto.
È UNA BELLA FORMULA, MA IN REALTÀ NON ESISTONO “ANARCHICI DI DESTRA” E NEPPURE “RIVOLUZIONARIO-CONSERVATORI”…
Bell’articolo