Ci sono libri che vanno toccati, di cui occorre tastarne la consistenza, libri che vanno toccati per ascoltare il fruscio della carta scorrere tra le dita, libri che vanno sfiorati lentamente pagina dopo pagina nella loro seducente complicità.
Ci sono libri che apri,
che sfogli,
che spogli,
che chiudi,
rivesti,
riapri,
richiudi e rimandi,
per non dissiparli
e sciuparli
in mille frammenti,
com’è degli incanti tra amanti,
fatti di sguardi furtivi,
ammiccanti,
e di istanti…
vicini e distanti.
“Maravigliosamente” è l’ultimo eccitante travaglio, coltissimo e lieve di Anna K. Valerio, uscito a febbraio per le Edizioni di Ar. “Maravigliosamente” stava lì da più di qualche mese sul mio comodino, tra il Salterio, i Vangeli e qualche altro improbabile volume: stava lì, paziente e impaziente di essere “preso”. Ma ci sono libri che non si possono prendere come cose, perché hanno carne con cui unirsi e solo il “căpĕre” è capìre. E ci sono notti in cui, chissà perché, il cuore batte qualche colpo più veloce e poi bussa ancora, fino a svegliarti.
E’ lì, nel buio della stanza che allora capisci cose che altrove o ad altra ora ti riesce impossibile capire, sicché capìto l’istante ti càpita di alzarti e leggere… o pregare …e unirsi, quaggiù o Lassù… e stupire.
Maraviglie!
Era notte fonda quando mi sono alzato, trascinato fuori dal letto da quel libro “tastato” al buio e riconosciuto da quella grana dolcemente ruvida della copertina. Ed è stato così, alla luce fioca di una lampada discreta e dentro il nero cupo del cielo di una notte imbronciata, che ho iniziato il viaggio dentro una fiamma fino “al termine della notte”.
Una notte d’aria leggera, trasportata dal fondo di quelle pagine, leggera perché senza i “fiati addosso” e “i grazie e i baci sdrucciolevoli e gli abbracci trattenuti e le allusioni, senza la violenza dissimulata: non quella di chi ti fa il male, ma quella angosciosa, infame di chi vuol toglierti il bene”.
Di che sto parlando? Dei “diciannove, venti, ventuno, ventidue anni” di una donna che “non socchiude” le labbra su quelle di chi arriva alle sue “sbadatamente”, partendo da un lontano abbraccio”, insinuandole la prospettiva di una carriera “a la carte” con dessert finale di un ricatto e di “una corda con cui impiccarsi”.
….Via!
Via “con un urlo di rabbia e la voglia di rinascere da un’altra parte, senza quel male brutto che ti toglie il bene, anche se il male che le toccherà “come castigo della società per le scelte successive sarà infinitamente più cattivo”, ma non in “un mondo senza grazia”, inalando la seduzione come danza “al di sopra della rabbia che sa di dolore”.
E’ un alito lieve, appunto, non un “fiato addosso” quello che esce dalle labbra e dalla penna di chi ha scritto questo libro: tantopiù perché non generato da un algido bigottismo o, peggio, da un provinciale perbenismo.
Ciò che invece ha generato questa “maraviglia” (e quell’ “urlo di rabbia e la voglia di rinascere da un’altra parte”) è un fuoco: “Se ti sembra più santo e prestigioso il nome di moglie, per me è sempre stato più dolce quello di amica o, se non ti scandalizzi, di concubina o prostituta”.
…fin quando “la mia morte, ben più eloquente di me, ti dirà che cosa si ama, quando si ama un uomo“.
Maraviglie!
Maraviglie d’amore e di morte, di guerra, di poesia, d’arte, di Dio, di dei, di uomini, di spirito e di carne. Questo è “Maravigliosamente”.
L’etica dell’estetica, l’oro di Cristina Campo seppellito in Dio, il pieno definito dal vuoto, la presenza dall’assenza: “Amare è sentire la pressione del corpo assente contro il proprio”. La carnalità – nel cattolico Gomez Davila – tanto più intensa quanto più sembra distante, laddove l’estasi delle parole si fa carne, simile al Logos in Cristo: è lì che la Verità non si dimostra, ma si mostra.
Maraviglie!
Maraviglie d’amore e di morte, come il suicidio tragico e mirabile di Antonia Pozzi, artista di versi e fotogrammi, “cresciuta da un fondo di lago colmo di pianto”, alla deriva come “una nave che porta in sé l’orma di tutti i tramonti”, morta “per troppa vita che aveva nel sangue”.
…”e di cantare non può più finire”.
Suicida come lei, anche Carlo Michaelstaedter, per il quale “ottimo è non nascere”, perché la vita è soffocata dallo stesso vivere, così facendo in realtà esperienza della morte: “Noi col filo, col filo della vita, nostra sorte, filammo a questa morte”. Alla metafisica di Aristotele rimprovera di aver messo la terra sicura sotto i piedi dei discepoli di Platone: questa è “la rettorica”, cui opporre la persuasione di chi ha la vita in sé, di chi riesce a “consistere nell’ultimo presente”.
Morte come quella di Nicolas Centenaro, fulgente di lucciole che vi ci sono appiccicate addosso, fulgente come ogni corpo glorioso che attraversa la morte senza esserne spento, senza poter essere consumato, millimetro dopo millimetro da quelle termiti, cui è stato dato in pasto dai suoi carnefici. Morte bella in questo scempio di carne divorata, come è bella ogni morte di chi muore per aver bene combattuto la buona battaglia.
Morte in cui, invece, si spengono “i Lumi della libertà” nella Sicilia “liberata” dalle Giubbe Rosse di Garibaldi, dove “la crudeltà degli umili e neri con le barbe grigie” ha scannato finanche il giovane figlio biondo del notaio e con lui tutto ciò che ricordava un “ordine”. E ora di quella libertà, quella inutile crudeltà non sa più che farsene, proprio come lo stolto ragazzo di Lavagna, gettatosi nel vuoto quando è stato scoperto dai finanzieri con la droga. Aveva sedici anni, aveva la libertà, ma “neppure il coraggio delle proprie trasgressioni. Era figlio dell’ideologia, di quella “viltà a tutti i costi”, che non si è mangiata solo il coraggio di vivere, ma – maravigliosa intuizione – “i nostri pizzi neri, le nostre rapsodie tattili, i nostri sguardi di intesa e soffi che si confondevano”.
Si è mangiata – quell’ideologia – “il parossismo del cercare e sfuggirsi”, di cui ne «Un amore in guerra» di Bacchelli, è l’epilogo imprevisto e travolgente, dentro la travolgente e disperata disfatta di Caporetto. Eroe normale, al pari dell’eroe solitario cui rimanda un altro siciliano come Sciascia, non dimenticando l’eroismo siberiano di chi distilla essenze dalle piante nella disabitata libertà di foreste lontane e di solitari, odorosissimi silenzi …
Maraviglia!
Maraviglia in questo libro i suoni, “suoni scritti” con la musicalità d’un usignolo e di un flauto che infiamma.
Leggete – maraviglia! – e stupite, perché è vero: “Non si può restare ottusi dopo aver visto una fioritura di ciliegi, né si può chiudere gli occhi sui guai del mondo, dopo averli aperti sulle sfumature bluastre di un pavone, né correre da una servetta all’altra , dopo aver sfiorato la nuca di una geisha….”
Ah, “vincere la paura folle che mette sempre la bellezza!”
Ah, “niente ci disturba come il vero!”.
Nulla ci incanta come il bello.
“Voi chiudete pure gli occhi: diventerete ciechi”.
Chiudete gli occhi se non intendete le “maraviglie”, chiudete gli occhi voi che chiedete solo acqua e refrigerio.
Ma “se non chiedete acqua, ma la sete”, se non cercate il vivere, ma il “pazzo morire”, se l’oasi cui anelate è “un’oasi tra le fiamme”, se “il tempo e il fuoco sono divenuti per voi la stessa cosa” e “se il fuoco tutto intorno bramate, per avere il tempo di continuare a bruciare – perché “è il fuoco il grande esule di questo mondo spento” – allora “prendetelo” questo libro, “prendetelo” con voi, “prendetelo” e portatelo a letto, con voi.
Poi… magari… “complici come due innamorati che giocano a nascondersi dal male del mondo”, lasciatelo… e lasciate venire la notte… finché una notte il cuore batterà qualche colpo più veloce e poi busserà ancora, fino a svegliarvi. E allora “un fuoco comincerà a uscire dal libro e a entrare in te, se sai bruciare”…