Mi è capitato un film tempo fa, Streghe verso nord, incentrato sulla vita di un aspirante scrittore che nel libro d’esordio parla streghe, di come si infiltrano nella società e della possibilità di disinnescarle. Una commedia picaresca dal vago sapore fantasy, interpretata da un impensabile (detto senza offesa) Teo Mammuccari per la regia di Giovanni Veronesi. A metà film, al tavolino di un locale, appare in un cameo, nel ruolo di profeta, Pasquale Panella, che, niente di più e niente di meno, interpreta sé stesso, declamando un testo che parla del tritone e del bordo buono, lasciando il protagonista come Edipo di fronte agli indovinelli della sfinge. Non vuole essere capito, vuole comunicare. Apparizioni cinematografiche a parte, l’ascolto, anche superficiale di un testo di Panella, come prima reazione, suscita proprio l’inaspettato, un intreccio di fascinazione e sbigottimento.
Liquido ed evanescente, detesta il personalismo egocentrico al punto che in un’intervista, una delle poche rilasciate, ha dichiarato di avere noia, ormai, anche ad ascoltare la propria voce. Testi agrodolci, flussi di miele affilato da oggetti minuscoli, aforismi che poggiano sulla quotidianità, inebriata da tentativi filosofici nel tessere trame concettuali, rifuggono l’esegesi di forma e contenuto, ma trascinano la canzone e il testo stesso nella dimensione onirica, ponendo, di nuovo, l’oggetto “canzone”, nell’elenco di quegli oggetti che consentono ancora di esercitare la fantasia. Come nella ginnastica, il fruitore è spinto oltre. Ha cucito versi sulle canzoni di Zucchero, Mietta, Mango, Valeria Rossi, senza dimenticare di essersi inoltrato con Lucio Battisti verso canzoni definite dalla critica come “sperimentali” (forse perché contraddittorie rispetto al periodo precedente).
Panella è stato per molto tempo un’entità astratta, presenza impercettibile e sfuggente, in grado però di piegare alle proprie frequenze sensibili, un oggetto di consumo per sua natura volatile e altrettanto sfuggente, come la canzone. Il rapporto con Battisti era vissuto in totale libertà, i testi godevano di vita propria, a volte la musica se li mangiava e ne restituiva parziali frammenti, ma a Panella andava bene così. In una delle rare interviste da lui concesse, strappato alla volontaria presa di distanza da qualsiasi bagliore di riflettore (frutto, a parere di chi scrive, di una piacevole iconoclastia) era solito affermare: <<Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce>>. Panella ama la voce, il fluire libero, il bordo buono.