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Cinema. “L’albero dei frutti selvatici”: in Turchia tra intimismo e richiami identitari

by Annarita Mavelli
27 Settembre 2018
in Cinema
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Appassionato di letteratura, Sinan coltiva il sogno di diventare scrittore. Di ritorno nel suo villaggio natale, nella provincia di Çanakkale, dopo aver terminato gli studi universitari, il giovane guarda con riluttanza la vita di provincia alla quale vorrebbe sottrarsi. Indeciso se diventare insegnante come il padre, magari trasferendosi nelle regioni della Turchia orientale pericolosamente esposte ai conflitti curdo e siriano, Sinan concentra i suoi sforzi nella ricerca del denaro di cui ha bisogno per pubblicare il suo primo libro.

Il cantore dell’Anatolia

Siamo in Anatolia, Anatolh. L’Oriente ove sorge l’astro, cuore dell’origine asiatica del popolo turco, nonché punto di approdo della migrazione dei turchi Selgiuchidi, iniziata secoli addietro dalle fredde distese prossime alla Siberia. Eppure L’albero dei frutti selvatici (Ahlat Ağacı, “Il pero selvatico”, 2018) si apre con l’inquadratura in primo piano del protagonista, seduto in una locanda, in compagnia soltanto di una simit (ciambella turca) e di un bicchiere di tè a forma di tulipano, davvero “ubiquo” in Turchia. La scena di esordio, probabilmente una dichiarazione di intenti sul significato di ciò che si vuole narrare, marca una differenza importante rispetto ai due precedenti film di Nuri Bilge Ceylan – Il regno d’inverno (2014) e C’era una volta in Anatolia (2011), vincitori a Cannes rispettivamente della Palma d’Oro nel 2014 e del Grand Prix Spécial du Jury nel 2011 – i quali mostrano in apertura i campi lunghi della steppa anatolica, quadri in cui le tracce dell’esistenza umana quasi si smarriscono.

Intimismo e richiami identitari

Sinan è un ragazzo dallo sguardo assente, scettico del futuro, sul suo volto la piega della bocca perennemente atteggiata a disgusto. Sentendosi diverso dalla gente comune che disprezza, “tutti ottusi, bigotti, uguali come baccelli di piselli”, desidera per sé una  vita di cui egli sia il centro, ma ha paura di allontanarsi troppo dalla sua vera identità.

Idris, il padre, è un uomo dedito al gioco d’azzardo, braccato dai creditori, elude l’ostracismo degli abitanti del villaggio, schermando il suo spirito romantico dietro la maschera di uno sprezzante ghigno di scherno, giacché “un uomo arrabbiato fa male solo a se stesso”. Purtuttavia, è esistito un tempo in cui Idris frequentava i notabili della città, e con la sua mirabile affabulazione era capace di evocare i colori di un paesaggio o l’odore della terra.

Un padre, un figlio e in lontananza anche un nonno, quello paterno, intorno al quale si riavvolge tutta la storia in un finale costruito non tanto come epilogo di una trama che non c’è, quanto come catartica “reductio ad unitatem”. Cionondimeno, non ci uniremo qui al coro di voci che ha ravvisato nel soggetto di questa pellicola il tema del confronto generazionale. Il padre e il figlio rimandano l’uno all’altro la propria immagine come in un gioco di specchi, essendo in realtà lo stesso personaggio osservato in prospettiva diacronica, e dunque rifratto su spicchi diversi nell’arco del tempo dell’esistenza. L’alternanza padre-figlio è orchestrata dal regista turco secondo una modalità concettualmente non dissimile dal binomio notte-giorno, buio-luce, elemento magico-razionalità che sorregge l’intera struttura filmica di C’era una volta in Anatolia. Con L’albero dei frutti selvatici Ceylan ripropone un dualismo irrisolto, che affresca il dramma di una Turchia, quella odierna, che marcia a due velocità: da una parte l’élite laica e occidentalizzata, pronta a mettersi alla guida del processo di adesione all’Unione Europea, la quale ha voltato le spalle alla tradizione secolare del suo Paese; dall’altra il popolo turco, rurale o provinciale, che non ha perso il contatto con la propria terra – di cui conosce la forma delle sculture delle rocce anatoliche, le stagioni del pascolo, i sapori (la discettazione dei poliziotti locali sulla vera consistenza dello yogurt di pecora e di bufala in C’era una volta in Anatolia dura circa tre minuti), –  ma incline, per disinteresse o disillusione, a essere manipolato da una malintesa idea di modernità identificata con la “sazietà materiale”, o all’opposto da una fede superstiziosamente somministrata attraverso la rigida recitazione delle sure.

Sinan si trova esattamente al bivio di tale dilemma, per questo il suo camminare tra i viottoli del villaggio o nelle strade di Çanakkale, quando vi si reca, è un vagare di tipo circolare, che non gli consente di imboccare nessuna direzione. Ciò spiega perché attorno alla figura di Sinan si aprano a raggiera una serie di dialoghi con interlocutori diversi, ciascuno dei quali non comunica con gli altri, e non comparirà più nello svolgimento successivo della storia. Questi dialoghi dilatati, realizzati da Ceylan con una inquadratura fissa iniziale e accelerati poi con lunghi piani sequenza nella fase in cui la speculazione raggiunge il suo acme, toccano ogni aspetto del portato valoriale dell’uomo turco contemporaneo, conferendo al film una forma narrativa simile a una antologia di racconti brevi.

Il primo contraddittorio di Sinan avviene con il rappresentante delle istituzioni, il Sindaco, che declamerà parole vuote come democrazia, amministrazione aperta e trasparente, in una sorta di grottesca imitazione di consunti cliché di matrice occidentale; nel cameratesco scambio di confidenze con gli amici, Sinan, riflettendo sulle rinunce dei suoi coetanei, si domanda “quanto ferisce scoprire di non essere importanti”; nel colloquio incalzante e serrato con Süleyman Akbaş, lo scrittore locale, Sinan lotta contro l’idea di piegarsi al compromesso di scrivere sotto il condizionamento di interessi commerciali, accusando siffatti scrittori di essere “schiavi in cerca di un padrone”. In ultimo, a sovrastare tutti i precedenti, il dialogo di Sinan con i due imam, quello che potremmo rinominare “Discorso sulla Morale”, sul relativismo di una morale non dettata dai dogmi della religione, in cui per converso sia l’individuo a codificare la sua propria verità, ove risuonano evidenti echi del kantiano “La legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me”. Vi trapela, altresì, la sfiducia nei confronti della prosaica umanità dell’imam, sulla cui bocca muoiono, obliati, i versi di Yunus Emre (1240 – 1321) letterato e sufi turco. Ammonisce il poeta: “Non conobbero il significato della Verità con la legge canonica,/ Con questa ipocrisia i saggi non sono rinati./ La verità è un mare, la legge canonica è la sua nave […]/ Chi commenta i Libri sacri rifugge dalla loro verità,/ Legge l’interpretazione e ne ignora l’intimo significato.” (Divan, Hakikatın manası, “Il significato della Verità”).

Il conflitto interiore del protagonista si ammanta di una sorta di nichilismo esteriore quando deve decidere se rimanere nel punto centrale di un cerchio immaginario che racchiude il valore identitario della propria cultura, oppure snaturarsi uscendo dai suoi confini. Sinan non sceglie, vorrebbe valicare quel limite, ma non può farlo perché il libro che ha appena finito di scrivere, uno Zibaldone di pensieri in salsa turca, intitolato Ahlat Ağacı come la pellicola, altro non è che una elegia delle “piccole cose” che animano la sua terra.

Per Idris, come detto alter ego di Sinan, il tempo del dilemma si è già compiuto. I due destini tornano a essere sincronici con la vendita del cane del padre da parte di Sinan allo scopo di procurarsi il denaro che appagherà la sua vanità di scrittore. Tale accadimento, l’unico dal punto di vista diegetico, raccontato dal regista turco con la sola scena notturna del film, segna l’ineluttabile scivolamento del destino del figlio in quello del padre.

Il regista Nuri Bilge Ceylan

La letteratura nel cinema di Ceylan

L’albero dei frutti selvatici in continuità con Il regno d’inverno ripropone un protagonista scrittore. Siffatto accostamento tra due lavori diversissimi nei codici estetici e tematici è soltanto un artificio che ci permette di introdurre il rapporto tra Nuri Bilge Ceylan e la letteratura. Pur non amando gli adattamenti cinematografici, il regista turco trova nell’opera letteraria una delle fonti principali del suo processo cinepoietico. La letteratura russa è segnatamente presente con ampie citazioni di Anton   Cechov in C’era una volta in Anatolia, laddove Il regno d’inverno è liberamente tratto dal racconto Жена (“Mia Moglie”, 1892) dello stesso autore, e non è difficile riconoscere Dostoevskij nelle tormentate analisi introspettive dei personaggi creati da Ceylan. A chi si interroghi sul perché della letteratura russa, ricordiamo che Mosca, chiamata anche la Terza Roma, ha ereditato quella “idea bizantina”, che nella sua organicità è mirabilmente esposta nel saggio di Konstantin Leont’ev Vizantinizm i slavjanstvo (1875), quando Sofia Paleologa, nipote dell’ultimo imperatore bizantino Costantino XI, andò in sposa a Ivan III di Russia per fuggire alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani. È comprensibile che il regista turco, per prossimità storica e geografica, abbia attinto a questo mondo russo la sua prima conoscenza, malgrado mediata, della classicità. Ritenendola la più libera tra tutte le forme espressive di arte, Ceylan porta la letteratura nel suo cinema per veicolare concetti. A tal fine, il regista ricorre a un uso sapiente di metafore, che impongono allo spettatore una decodificazione dei contenuti per il tramite dell’interpretazione, cosicché se l’opera letteraria si completa con l’immaginazione di chi la legge, il cinema, essendo la più visiva delle arti, sollecita il ruolo attivo del pubblico affidandosi all’ambiguità.

L’albero dei frutti selvatici si attesta, al pari dei precedenti, come un prodotto autoriale, tuttavia esso soffre di un soggetto debole, in cui i riferimenti letterari si percepiscono più lontani, ulteriormente penalizzato a nostro avviso dall’introduzione di tecniche di regia innovative per il cineasta turco, e che forse proprio per questo lo spersonalizzano. Ci riferiamo ai lunghi piani sequenza – come nella scena in cui il protagonista ripreso da tergo discute con i due imam mentre cammina verso il villaggio – la cui dinamicità stride con la dolorosa profondità del dramma esistenziale narrato, acuendo la vacuità dei personaggi, probabilmente dovuta anche a un problema di casting. Ceylan utilizza sovente il linguaggio figurato dei sogni e delle metafore. Il neonato con le formiche, l’inseguimento nel cavallo di Troia, Sinan e la corda del pozzo sono tutte parentesi oniriche che danno al film un ritmo ondivago, a tratti ansiogeno.

L’idea del pozzo, sogno e metafora nel contempo, costituisce la vera chiave di lettura dell’interrogativo implicito sulle future sorti della Turchia che il regista ci consegna nella sintesi del finale. Invero, se in C’era una volta in Anatolia il movimento filmico va dal particolarismo identitario identificato con la terra anatolica, verso l’universale ontologia dell’essere umano, lì indagata “sub specie criminis”, qui si resta per tutta la durata dilatata della pellicola a ragionare sulle possibili declinazioni della società turca.

A fronte di tale interrogativo, l’idea del pozzo, al quale infine lavoreranno congiuntamente figlio, padre e nonno, suggerisce di scavare nella terra per trovare l’acqua, ovvero, altrimenti detto, la linea ininterrotta delle ascendenze sul ramo paterno riconduce al mito fondativo dei popoli turchi che si radica in terra d’Asia e si nutre dell’elemento vitale dell’acqua. Quando, dopo la pubblicazione del romanzo Il battello bianco (1970), lo scrittore kirghiso Ajtmatov replicava alle osservazioni della critica nel suo articolo intitolato Precisazioni indispensabili: “Mi amareggia che i recensori non abbiano capito il significato più profondo della leggenda (della Madre-Cerva): un armonico rapporto tra l’uomo e la natura”, aveva chiara l’importanza del problema filosofico legato al recupero del côté spirituale pre-islamico della cultura turca. Lo stesso che le migliori espressioni del sufismo hanno saputo assimilare in modo sincretico: “E con la terra vennero anche i quattro attributi,/ La pazienza, la bontà, la fede in Dio e la prodigalità./ E con l’acqua vennero i quattro diversi stati dell’anima:/ La semplicità, la benevolenza, la generosità e la beatitudine.”(Abdulbaki Gölpınarlı, Yunus Emre, Il libro dei consigli e delle poesie, 2017).

In termini espliciti questo discorso rimane oltre la “celluloide” su cui Nuri Bilge Ceylan ha impresso i suoi lavori, almeno nel senso che egli vi allude soltanto, rivelando di non aver elaborato appieno una riflessione che invece sottende con toni lirici e pacificati la Trilogia di Yusuf del turco Semih Kaplanoğlu, e nell’ambito di questa, segnatamente Miele (“Bal”, 2010).

In conclusione, viene da chiedersi se sia veramente possibile tradurre la Settima Arte in una analitica esegesi verbale, neanche si stesse celebrando un kafkiano processo a questa espressione artistica, centrata per converso sull’immaginifico. In una recente intervista, Ceylan ha dichiarato di vedere la vita come un sogno. Noi gli facciamo eco, affermando che L’albero dei frutti selvatici è esso stesso un lungo, sfocato sogno, dal quale ci si risveglia all’alba del giorno seguente.

*L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan

con: Aydin Doğu Demirkol, Murat Cemcir

sceneggiatura: Akın Aksu, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan

@barbadilloit

                                                     

Annarita Mavelli

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