Il 22 febbraio 1942, a Petropolis, triste località di villeggiatura a settanta chilometri da Rio de Janeiro, Stefan Zweig si uccise con la moglie. Aveva sessantun anni. Era stanco di fuggire. Viveva a Salisburgo; con l’Anschluss il terrore nazista l’aveva costretto a peregrinare. Inghilterra, Stati Uniti, Brasile. Non ne poteva più. Ancora pareva che la Germania potesse vincere; la morte voleva per il Maestro essere anche un segno di rivolta; ma Zweig era coscienza così alta che, se fosse vissuto, avrebbe parimenti denunciato i bombardamenti alleati, Amburgo, Dresda, Vienna, Hiroshima. Un romanzo che ho appena letto, Gli ultimi giorni di Stefan Zweig, di Laurent Seksik, apparso in italiano per Gremese, ricostruisce in modo preciso e appassionante. L’ultima sua opera, scritta proprio in Brasile e apparsa postuma, è una delle sue più belle: Die Welt von Gestern, Il mondo di ieri (conviene leggerla nella limpida traduzione di Lavinia Mazzucchetti, 1945, traduttrice anche di Mann: non si lavora più così!), è una rievocazione della Vienna avanti la Prima Guerra, ove la Germania, l’Austria, la Boemia, e un finissimo cosmopolitismo ebraico capace di coltivare anche le memorie imperiali, si uniscono in uno dei più affascinanti crogiuoli della morente Europa. Musil, Roth, Mahler, Schönberg, Trakl… Chi ama la civiltà e l’arte non può leggerlo senza commuoversi per la bellezza e la finezza di ricordi personali e universali.
Al mondo ebraico Zweig s’era dedicato in modo marginale. Egli è uno dei più grandi cantori della civiltà, intesa nel senso della Kultur, contrapposta alla “civilizzazione”. È un narratore di qualità, ma le opere che gli diedero la fama sono prevalentemente storiche, oppure di narrazione biografica di grandi personalità. Se ho trascorso la passata estate con Sciascia, ho vissuto questa con lui. È amore antico: la sua biografia di Fouché, lo spretato assassino degli annegamenti di Nantes, poi ministro di polizia di Napoleone, una serpe ripugnante, la lessi a quindici anni. L’esser un grande scrittore, se gli valse un enorme successo, ha determinato la sfortuna di Zweig presso gli storici burocratici, in ispecie quelli dell’università. Egli si documenta come il più accanito professionista; ma il grandioso soffio della sua narrazione, coinvolgendo l’anima dei protagonisti, le recondite cause del loro agire, la natura politica della religione, la comunanza dello spirito entro la stessa epoca (quel che si chiama il Zeitgeist, lo “Spirito del Tempo”), che avvolge la politica come le arti e la filosofia, supera l’episodicità dei fatti e si volge al loro significato. Così, per l’esser storico insieme e poeta, taluno lo giudica un dilettante. Balzac, Nietzsche, Dickens, Händel, Dostoevskij, Verlaine, Proust, Freud, Byron, Maria Stuarda, Maria Antonietta (una delle più profonde opere sulla Rivoluzione Francese che io conosca), Erasmo … Ognuna di queste biografie merita d’esser letta per l’arte e il contenuto rivelatorio; ed è prodigioso che il Maestro sia riuscito, insieme con tanta narrativa, a mantener un livello inalterabilmente alto in una tale mole di produzione.
Un piccolo libro, ripubblicato da Castelvecchi nel 2015, mi è particolarmente caro: Castellio contro Calvino. Narra di come il cosiddetto riformatore religioso, in realtà un oscuro despota ammantato dello stesso orrore di Hitler, conquista un paese instaurandovi un terrore simile a quello staliniano e nazista. E della persecuzione fatta contro un medico spagnolo, Michele Serveto, arrostito a fuoco lento a Ginevra per “deviazioni teologiche”. E del tentativo di un santo e dotto uomo, Sebastiano Castellio, di opporre a Calvino la forza della ragione. Già sconfitto, sfuggì al rogo solo per esser morto prima che lo acchiappassero. È un altissimo canto contro il fanatismo religioso in genere, contro la religione come strumento di dominio di anime oscure e torbide, contro la religione come mezzo per opprimere, contro la religione protestante come instrumentum regni. Poi Zweig principiò a scrivere la storia del contravveleno, quella del filosofo del dubbio e della tolleranza, Montaigne. Ma preferì lasciarla incompiuta e morire.
*Da Il Fatto Quotidiano del 22.9.2018