Parlare di disabilità è sempre difficile, nonostante ci siano state alcune conquiste sul piano giuridico e civile, sul piano culturale, in diversi contesti, c’è ancora parecchio lavoro da fare. In che modo?
Ogni contesto ha la risposta e la soluzione più adeguata. Il cinema è sicuramente un mezzo adeguato per puntare il faro su questioni del vivere civile e, dal momento della sua costituzione come medium di massa, non ha esitato a parlare di disabilità in maniera più o meno adeguata, più o meno approfondita. Insomma ha aperto, nel bene o nel male, una sorta di dibattito. Da spettatore, fruitore onnivoro e persona con disabilità, mi piacerebbe però che ne parlasse meglio.
Don’t Worry è un film recentissimo, un biopic, per la regia di Gus Van Sant. Descrive la vicenda umana di John Callahan, disegnatore satirico con un passato da alcolista che si ritrova nella condizione di persona con disabilità in seguito ad un incidente automobilistico. Debole nella seconda parte, il film descrive il percorso di redenzione del protagonista che sembra venire a patti frettolosamente con la sua nuova vita percorrendo i dodici passi del percorso terapeutico. Il film diviene un esempio per parlare del complesso rapporto che si crea quando il cinema prova a parlare della disabilità, un rapporto labile, frenetico, sfuggente e complesso.
Il fatto che il cinema parli di disabilità in maniera stereotipata può sembrare per certi versi inevitabile dal punto di vista drammaturgico perché una narrazione cinematografica poggia per natura su archetipi. Il filo rosso che lega quasi tutti i film sulla disabilità è che sono incentrati esclusivamente sulla patologia disabilitante, sulle fatiche che essa comporta, sulla difficoltà di accettazione, relegando ad un ruolo marginale, invece, il soggetto, la persona con disabilità (come ricorda la recente nomenclatura della convenzione Onu). Un rapporto difficile, insomma, quello tra la disabilità e il cinema, tormentato e sofferto, che pare mostrare come la persona e la sua disabilità (come anche gli ausili da essa utilizzati) siano una cosa sola, riducendo tutto ad un punto di vista eccessivamente biomedico.
Elena Dell’Agnese (2011), docente di Geografia Politica, sostiene:
“Nei film di guerra, per esempio, soprattutto se politicamente impegnati e pacifisti, il ricorso alla cosiddetta wheelchair’s rhetoric (Kuppers, 2007) è quasi un luogo comune nel raccontare delle difficoltà dei militari che tornano dal fronte (Tornando a casa, 1978; Il cacciatore, 1978; Nato il 4 luglio, 1989; Forrest Gump, 1994; Avatar, 2009). Nella fantascienza, il protagonista maschile, disabile a causa di un incidente, può invece riacquistare le proprie capacità (o addirittura accentuarle), grazie all’impiego di tecnologie futuristiche che lo trasformano in cyborg (Robocop, 1987; Avatar, 2009) e quindi mantenere l’atteggiamento da eroe”.
Un pregiudizio, anche visto in chiave positiva, che sembra suggerire però che il protagonista con disabilità, per raggiungere parametri conformi all’accettabilità sociale, debba gioco-forza impegnarsi in imprese eroiche.
Essendo ancora il cinema, nonostante i nuovi media, un incubatore della cultura di massa, ritroverebbe lo spirito della avanguardia più pura ed eversiva se proponesse un tipo di cinematografia in cui la disabilità risultasse un contorno (non un limite) alla soggettività emotiva e psichica dei protagonisti.