Da “Troppi paradisi” (Einaudi) e dal suo incipit: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti» a “L’uomo senza profilo” (Solferino): «Quello che so è che mi chiamo Piedimonte», sono passati dodici anni, densissimi, che segnano la deriva dell’autofiction. Dietro Siti e il suo grande romanzo c’era un mondo, dietro Piedimonte e il suo piccolo racconto c’è solo un monolocale. In questa differenza c’è tutto l’abuso del genere. Stefano Piedimonte prova a raccontare la difficoltà di darsi una biografia con Wikipedia, viene pescato nella sua routine culturale milanese – letture in cerchio di poesie, incontri in terrazza con vino e amori a catena, mentre a Napoli era tutto un piangersi addosso – da uno studente chiamato a scrivere la sua voce per l’enciclopedia online, da qui principiano riflessioni e problemi e la difficoltà di ricezione della realtà, nonché la facilità di manometterla. Piedimonte prova la carta della confidenzialità: si sente solo, deve vivere tra cassiere che ne contestano le scelte poco salutari, lettrici che non capiscono le sue provocazioni e i ricordi familiari, che, però, vengono alterati e confusi nella restituzione wikipediesca. Alla fine va a letto con la cassiera che come la signora Pina con suo marito, il ragioniere Fantozzi, lo stima molto; viene sostituito nelle risposte alle lettrici; si arrende alla manomissione e prende un cane. Vorrebbe essere postumo, invece è troppo presente a se stesso e il risultato è la mancanza della saggezza cruda dei nonni in funzione di un conformismo narrativo e linguistico. (dal Messaggero)