Lei è un decano degli autori della “Marsilio”. Vuole commentare la scomparsa dell’editore De Michelis?
Ora ch’è scomparso Vittorio Strada, un grande del quale la “Marsilio” aveva appena pubblicato un libro, in effetto, dopo Piero Craveri, e, quale romanziere, Domenico Cacopardo, lo sono. È molto difficile parlare di un amico del cuore quando se n’è appena appresa la fine. Per fortuna è morto nel sonno, senza accorgersene. Persino un condottiero quale Cesare (Giulio, dico: Cesare De Michelis è stato davvero pur egli un condottiero: dell’editoria) dice che la migliore morte è “quella che giunge inavvertita”. Ciò mi consola per il mio amico.
Come vi siete conosciuti?
Prima desidero ricordare un nostro incontro del maggio 2017. Eravamo a colazione sulla terrazza del “Monaco”. Giornata già balneare. In quel momento dominava perfettamente la malattia. Si parlò, come facevamo, di tante cose: era anche un grande ascoltatore. Gli spiegai – ricordo – l’estetica musicale di Rossini, raccontando la visita che Wagner gli fece a Parigi nel 1861. A un certo punto mi disse: “Vedi, Paolino, per più ragioni io a poco a poco mi sto ritirando dalla guida della casa editrice. Però, fin che avrò fiato in corpo alcuni autori resteranno mio appannaggio esclusivo. Tu sei nella prima fila di costoro!” Poi mi fece il più bel complimento che in vita mia abbia ricevuto: “Sei un miscuglio di grande cultura e grande umanità, affettività, unico, quale solo a un napoletano è dato essere!”
Ma il vostro primo incontro?
Ci vedevamo soprattutto nel foyer della “Fenice”. Assisteva agli spettacoli, e allo spettacolo della folla, con distacco e un po’ di fastidio: però era sempre sorridente. Il testone un po’ curvo. È facile dire, oggi, per il peso dei pensieri profondi! Ci conoscemmo nel 1983, quando Vittore Branca, che allora reggeva da quel grand’uomo che era la Fondazione Cini, organizzò un convegno per il centenario della morte di Wagner, avvenuta a Venezia. Ci rispettavamo a distanza, parlandoci col “Lei”. E lui, con discrezione e pazienza, mi chiedeva di pubblicare una raccolta di articoli, scelti fra i miei elzeviri del “Corriere della Sera”. “Collectanea non ne faccio!”, rispondevo. In effetto, a parte le memorie dei cuochi e dei calciatori, che sono ciò che “tira” di più, oggi la gran parte dei cosiddetti libri sono raccolte di articoli. I celebri intellettuali questo fanno … Io, sono superbo. Peraltro, per trent’anni un libro vero non sono riuscito a scriverlo. Il mio volume di memorie La virtù dell’elefante lo avevo incominciato, come per miracolo, il 16 luglio 2013. Ricordo esattamente la data perché è la festa della Madonna del Carmine, da allora divenuta la mia patrona letteraria. A settembre ne portai una metà a sei editori: alcuni a me vicinissimi. Venni respinto da tutti e sei: ed è stata la mia fortuna. Allora – un novembre pur esso balneare – mi incontrai con lui sulla terrazza dell’”Europa”. “Non vorrei apparisse che La considero una ruota di scorta. Ho un libro rifiutato da sei editori: Rizzoli, Mondadori, Bompiani …”. Tese gentilmente la mano acché gli porgessi il manoscritto. Qualche giorno dopo mi chiamò: “Siamo fieri e felici di pubblicarLa!” Mi seguì con un misto di severità e di indulgenza meraviglioso. La stessa adottata in seguito. Un editore che legge i libri da lui editi, oggi è un prodigio, un monstrum! Il prossimo uscirà a ottobre: nato con lui; il più difficile della mia vita; e ora ho ritoccato le bozze, prendendomi il triste piacere di dedicarglielo, cosa che non avrei fatto lui vivo, giacché dedicare un libro al proprio editore ha un che di ridondante che non gli sarebbe piaciuto, come non piace a me. Le mie prossime opere, sapendo io di non aver più Cesare sovrastante, non saranno né così facili né così piacevoli. Lui era anche un grande “suggeritore” di libri da scrivere. Il mio ultimo, dell’anno scorso, nacque da una sua idea. Altri, da lui pensati, si stanno elaborando entro di me. Un suo impulso ha portato a un’opera che ho incominciata a scrivere a fine giugno. Per scaramanzia non ne dico l’argomento. Ma di questo non avevo raccontato neanche a lui: volevo dargli la sorpresa quando fossi stato più sicuro di riuscirci. E fin qui ho parlato di me: l’umana vanità porta a mettere, dirò così, il cappello sulla cassa da morto per espropriarla a proprio uso; ma l’ho fatto per aiutare a capire che uomo fosse e quanto gli debba!
Torniamo al condottiero dell’editoria.
De Michelis, veneziano, era professore di letteratura italiana all’Università di Padova. Nel 1965 egli e il fratello Gianni, il politico – e non facciamo paragoni con i suoi successori odierni! – , rilevarono la proprietà della casa editrice nata nel 1961 a opera di un gruppo un po’ eteroclito. Ma il nome è un meraviglioso programma. Marsilio, padovano, l’autore del Defensor pacis, considerato dalla Chiesa acerrimo nemico, è uno dei fondatori del pensiero politico moderno e della stessa moderna democrazia. La Marsilio è la casa editrice italiana che più di ogni altra ha il culto della libertà. Ospita voci libere e garantisce libertà di espressione a scrittori diversissimi fra loro e portatori di tesi e posizioni anche opposte.
De Michelis la casa editrice l’ha fatta sopravvivere e prosperare. E basta guardare il catalogo. Un colpo di genio di parecchi anni fa fu l’acquisizione dei gialli scandinavi. Un mondo! Se si pensa all’angustia dei varî commissarii Ricciardi e roba simile, che oggi rappresentano il cosiddetto noir… Ma non solo. Cesare fu capace di convivere con la Rizzoli quando questa era un editore importante. Poi chi la reggeva la mandò allo sbaraglio, essa andò alla Mondadori e lui e Gianni ebbero il coraggio di ricomprarsela, la Marsilio, di tasca propria. Oggi pochi imprenditori rischiano del loro, mi pare. Adesso – è cosa dell’ultimo anno – Cesare è riuscito a costituire un’alleanza con la Feltrinelli, che ha la migliore rete distributiva italiana. Alla Feltrinelli, mi auguro, saranno così intelligenti da non savianizzare ed errideluchizzare il catalogo Marsilio ….
E De Michelis uomo di cultura?
Era nipote di Eurialo De Michelis, uno dei più importanti nostri specialisti di D’Annunzio. I giornali hanno scritto che ha lanciato Susanna Tamaro: con tutto il rispetto per la brava ragazza, figuriamoci! Era il più caro amico di Giuseppe Berto, Berto, dico! E si leggano i suoi libri! L’ho fatto con profitto e diletto, sin da un tempo nel quale che io diventassi un suo autore era in mente Dei. Brecvi, quasi aforistici, ma così densi! E così ben scritti! Della letteratura aveva una conoscenza sterminata: credo fosse il più importante nostro settecentista. Ed era il massimo esperto del sommo editore Aldo Manuzio, di Pietro Bembo. Aveva rapporti internazionali vastissimi … Non appena laureato, andò a studiare a Mosca. La Mosca di Breznev: mi raccontò che nell’albergo dove i giovani studiosi erano ospitati c’era solo acqua gelata. Ogni sera era invitato in casa di qualche uomo di cultura, e l’accoglievano mettendogli in mano asciugamano e sapone, una tinozza bollente che l’aspettava! L’ospitalità russa! I russi adorano l’Italia … Ma la conoscenza si congiungeva all’amore. Egli amava la letteratura con una violenza quasi fisica; e a questa si alleava un’ironia tipicamente veneziana, irreproducibile. Nella sua conversazione sentivi Folengo e Goldoni; e il poeta Giorgio Baffo, che scriveva con ironia e gusto nella sua lingua, anche di un eros pieno di gioia. In lui era lo spirito pieno di bonomia di Cesco Baseggio e, a volte, il duro sarcasmo di Foscolo. Cesare non faceva nulla per celare il disprezzo che nutriva per tanti. La conversazione con lui era uno dei più rari piaceri che si possano avere. Ormai sarà per me uno dei più ricchi patrimonî della memoria; ch’è poi, la memoria nostra, del cuore e della ragione, la più sicura forma di sopravvivenza oltre la materia che ci sia data … Peraltro, metteva la stessa forza nell’amore verso la vita. Questo amore gli ha consentito di dominare per trent’anni la malattia: trent’anni con un polmone solo … Abitava, con la sua Emanuela, in una casa di quella parte di Venezia ancora un po’ agreste, Dorsoduro. La mia preferita. È un luogo abitato dal silenzio. Una specie di casa colonica, anzi una coppia di case coloniche. La seconda, adibita solo a biblioteca. La prima, fra i libri qualche angusto corridoio permette il passaggio. Saranno centomila, acquisiti non per quell’avaro desiderio di possesso di certi collezionisti – il possesso fine a se stesso – ma per l’amore che vi portava. Più della stessa biblioteca di Giuseppe Galasso.
Molti lo stanno commemorando, in questi giorni.
Quando scompare un uomo importante, tutti a raccontare dell’ultima volta che l’hanno visto… A vantare l’amicizia che univa al defunto… (So che hanno dovuto cambiare luogo del rito funebre, in tanti saremo. E questa è comunque una bella testimonianza.) Debbo vincere il timore di apparire ridicolo e ripetere che Cesare era per me un amico del cuore, un fratello maggiore. A dicembre mi fece un grande regalo: è venuto a trovarmi due giorni a Napoli. “Uno scrittore, bisogna vedere dove lavora, dove scrive, per capirlo fino in fondo…” Se ho vinto quella sorta di blocco letterario, nato anche dal mio esser allora troppo coinvolto nella critica musicale – quanti anni buttati! – lo debbo a lui. Il suo esempio mi sarà un costante aiuto per le mie prossime opere. Se ne scriverò: oggi viviamo un giorno (carpe diem), mentre discorriamo il tempo invidioso sarà già fuggito (dum loquimur fugerit invida aetas), e non dobbiamo fondare sulla certezza che altri ne verranno: quam minimum credula postero: dice Orazio. Mi piace credere che di questo scettico antico, il più saggio dei poeti, Cesare fosse una sorta di reincarnazione. Allo scettico antico è dato anche di essere un vir religiosus, ch’è cosa diversa, più profonda e più ampia, dall’essere un credente. La sua prima religione, era la cultura. (Peraltro, la sua famiglia aderisce alla confessione valdese). E una volta che gli parlai dell’infamia commessa dalla Chiesa con il rogo di Giovanni Hus, mi rispose: “Sì, ma la Chiesa ha sempre coltivato il Mistero!” Dove ne trovi un altro così?
*Intervista tratta da Italia Oggi