Paola la chiamano tutti “Palma”.
Tutto il lordume della vita – ultima tra gli ultimi – lei se lo porta addosso.
Il traffico di droga, il mercato di ragazze nigeriane intorno ai gommoni in fiamme e se stessa per come si racconta nel suo certificato penale: è un’assassina.
E nella cartella clinica, poi, raccoglie epatite delta e Aids.
Paola che tutti chiamano Palma è una donna in carne, vene, voce e sguardo.
Eccola: “Ora tutti a meravigliarsi di Castel Volturno, a parlare, ma nessuno veniva dove stavo io”.
Angelo della dannazione – malata e omicida – Palma non si piega davanti alla legge della vita.
Rispetto alla Paola che fu è diventata ancora peggio e così si presenta a chi osa cercarle gli occhi: “Ero la puttana dei neri; spacciavo e avrei anche ucciso; sempre per lavoro”.
Quando incontra Sergio Nazzaro, scrittore, collaboratore di Fanpage – autore di reportage d’inchiesta sulla criminalità organizzata, in particolare sulla mafia africana – Palma non ha che un racconto da offrirgli ed ecco, quindi, Palma di Dio (Città Nuova editrice, 15,00 euro).
Al sud dell’anima – nel Sud del sud dei Santi, come da canone imposto da Carmelo Bene – ben poco può l’immaginazione.
Tra strade scassate e siringhe c’è un incredibile resoconto di normalità infernale.
Paola che tutti chiamano Palma ha organizzato giri di prostituzione per la camorra, ha lavorato per la mafia africana, ha ucciso e – adesso, nell’incontro con Nazzaro – sopravvive.
Donna ai margini, reagisce botta dopo botta, non fa mai la vittima: “Scopi, e ti fai, che c’è di meglio?”.
Sergio Nazzaro è come una macchina da presa davanti a questa donna.
Ne raccoglie il mondo fatto di ladri di stereo nelle macchine, di scippatori e pezzi di merda di vario genere.
Tutta gente che a zio Antonio – lo zio di Palma – manco la portiera dell’automobile potevano aprirgli, ma che adesso, ‘sti quattro strunz, comandano.
Eccolo, zio Antonio. E’ con lui che Palma, appena diciottenne, si guadagna la maturità: “Lui ci teneva assai alla fede; non era uno di quelli che andava solo a Pasqua e a Natale, qualche volta ci andava anche la sera di un giorno normale; si sedeva con le vecchiette, le uniche che accompagnano il prete per tutta la settimana mentre se ne sta solo sull’altare; insieme a qualche pensionato tuttofare che aggiusta le candele, i tubi del lavandino e fa la questua; gli piacevano quei momenti di pace in chiesa; almeno lì dentro non l’avrebbero sparato”.
Ecco, il punto: “In chiesa ci vai da morto ma non ci muori là dentro”.
Zio Antonio sa istruire Paola che tutti chiamano Palma: “Io mi facevo a coca, sempre quella buona, di Zio Antonio, ma quando la coca è buona ti manda ai pazzi ogni momento”.
Zio Antonio quando compra carichi di droga, riscuote e amministra tangenti la porta con sé, Paola, e però la mette in guardia dall’eroina: “Secondo te perché non la facciamo spacciare dentro il paese, nipote? Perché poi come le guardi in faccia le mamme di questi poveri strunz? Quelli diventano delle chiaviche”.
Nazzaro ascolta, anzi, ri-prende tutto e svolge il racconto per tappe.
Ed è – la storia di Paola che tutti chiamano Palma – una via Crucis di quindici stazioni; una in più di quella patita da Gesù il figlio di Maria.
Ogni tappa è un quadro dettagliato, crudo, portato al limite estremo della scrittura e della sofferenza.
Non ci sono sconti per il lettore, non è un testo per dormire sonni tranquilli, tutt’altro.
Non ci sono giochi di parole o aggettivi.
La scrittura è secca, veloce, determinata.
È il rispetto dovuto a chi legge e riconsegna – con la cautela propria di una spietata pietas – quella periferia presente dentro e fuori di chiunque voglia accostarsi.
Paola attraversa la vita, ma tutti la chiamano Palma e il libro si dipana in un atroce resoconto che non diventa mai espiazione.
Non c’è redenzione, forse è solo la presa di coscienza di una storia straordinaria ma ordinaria. Non c’è invenzione ma una presa diretta di quell’ineluttabile disperazione che accomuna troppi di noi anche nell’indifferenza.
Il racconto è al femminile. C’è una donna sottomessa esclusivamente ai propri incubi, ai mostri di un cuore spaccato che niente e nessuno può ricomporre.
Sono le stazioni di una dolorosa via della solitudine, la più infame e la più devastante, anche se contorniata da volti, corpi che attraversano l’anima di Palma, la già Paola che al termine di questa sua notte, oltraggiata nel corpo, si trascina in ogni periferia d’Italia, in viaggio dal dal Sud al Nord per poi fare ancora ritorno al Sud.
Nazzaro di cui si ricorda anche Castel Volturno, reportage sulla mafia africana (Einaudi, 2013), infligge un colpo duro al lettore, un vero calcio nello stomaco perché in questo resoconto in presa reale, non c’è il compiacimento della degradazione di una vita delinquente, piuttosto la testimonianza rigorosa e compassionevole di una vita umana.
Nella sua severa trascrizione di fatti, sequenza, Nazzaro trascina il lettore in territori tratteggiati in poche e reali righe.
Tutto quello che la Polizia di Stato già sa di Paola che tutti chiamano Palma, con Nazzaro diventa ferita aperta su cui nessuno può distogliere lo sguardo.
Eccola: figlia e madre, puttana e assassina.
Nelle macerie delle periferie, nei muri sbrecciati, nei rifugi di fortuna fabbrica l’unico riparo alla propria coscienza.
Un angolo d’Italia a noi contemporaneo la tana di Palma.
Non conquista cittadinanza nei giornali e in tivù: meglio non saperne di Palma.
Ed eccola, orfana di se stessa: Palma che fu Paola, ancora in vita.
Nelle mani di Dio. (da Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2018)
*Palma di Dio (Città Nuova Editrice) di Sergio Nazzaro