
V.S. Naipaul era così grande come scrittore e aveva così tanta forza nelle proprie storie che sì, può essere ricordato anche solo per i propri difetti, come hanno fatto in tanti. Quale era la sua colpa? Essere grande e saperlo, essere immenso e non nasconderlo. Essere laterale e farsene vanto. Il paragone che si può fare con un italiano è solo con Carmelo Bene, ma un Bene ancora più sprezzante e contorto, pieno di una voglia di combattere – e anche a torto – sempre fuori dall’accettabile, dal consueto, dal normale. O pensare a un Céline di cultura inglese, perché come per Louis-Ferdinand le sue pagine fischiavano, fuori dai binari e dalle pagine. È una fortuna che abbia avuto il Nobel, nonostante carattere e azioni, per come ha allacciato, e senza finzioni, le sue radici su tre stati: Trinidad, India e Inghilterra quindi Caraibi, Oriente, Europa. La sua è una letteratura del risentimento, non quello piccolo borghese, ma quello ampio del dolore dovuto alla divisione, del riscatto con rabbia, dell’alzata sui pugni per raggiungere la vetta, portando quello che era soppresso, raccontando quello che era perduto. È un passaggio di classe che non risparmia nulla, che macina tutto quello che vede, senza pietà, con una durezza subita e restituita in ogni parola, e non per questo privo di ironia, anzi.
Naipaul nascondeva il cuore dietro il disprezzo, nascondeva l’amore dietro l’odio, era diverso da tutto il resto degli scrittori e per questo risultava ostico, odioso, antipatico ai più. Era un capolavoro, cosciente della sua condizione, e se ne fotteva. Respingeva come uomo, attraeva come scrittore. In questa oscillazione c’è la sua storia. In un mondo di brave persone che non sanno scrivere e che vivono di proclami, lui non si nascondeva, non ha mai avuto paura, perché la realtà non ha parti, quelle vengono dopo, prima c’è solo la realtà, e Naipaul la serviva liscia, senza filtri né accorgimenti. Può piacere o meno, ma non si può disprezzare il suo stile, come la sua sincerità. Non aveva sovrastrutture, era una voce sporca, perché sporco è il mondo. Naipaul aveva il più grande dono che possa essere a un reportagista, era l’osservatore assoluto, lui riusciva a far stare insieme il disprezzo per il colonialismo e quello per le squallide società vessate dal colonialismo. Un non bianco che scrive meglio dei bianchi riuscendo a non asservirsi alla cultura bianca. Leggerlo con i canoni di oggi non ha senso, tirarlo per le braccia per spingere – un uomo del genere – da una parte o dall’altra non è solo inutile, è stupido; chiedergli conto di quello che ha scritto è l’orrore della banalità sia della critica che dei lettori, successe al Festival di Mantova, e lui, giustamente, se ne andò, rendendo vivo quello che era morto. Naipaul va interrogato sull’inquietudine che non passa, sul primitivismo e sulla barbarie, non su questioni tra signore bene. Ha criticato e con ragione l’Islam, come pochi, riuscendo nel difficile intento di essere disprezzato da tutti: bianchi, neri, cattolici, indù e islamici. E questo non è un capolavoro? Aveva una bravura unica nel farsi nemici, riuscendo a esternare tutto quello che non va esternato, perdendo amici, amori e credito, ma restando un capolavoro. È riuscito a capitalizzare la rabbia, riuscendo a scavalcare l’orrore descritto da Joseph Conrad, al quale avrebbe voluto chiedere: Ma oggi quanto del mondo moderno ti contiene? La profondità della domanda racconta Naipaul, uno che sarà anche stato scostante e difficile, ostico e rabbioso, ma che non ha mai detto banalità, nonostante i tentativi e le domande dei giornalisti. Sapeva che cosa voleva e se l’è preso, sfondando porte a calci, partendo dal piccolo mondo di Trinidad fino ad Oxford e ritorno, passando per il Nobel. Riuscendo a raccontare l’umanità senza indugi, dove il maggior pregio era la scrittura stessa, che lo costringeva ad essere contemporaneamente rinnegato, colpevole e profeta.