Lo strangolamento dell’Iran da parte di Trump costerà all’Italia 27 miliardi di dollari di commesse e 1,7 miliardi di euro l’anno di esportazioni. E poi c’è la Fca: le chiavi di avviamento, e il suo futuro, le hanno in mano gli americani e i mercati globali, non gli italiani
Ci sono giorni in cui i destini delle persone e delle aziende incrociano quelli dei popoli e delle nazioni. In queste ore è come se stessimo dando un lungo addio alla Fiat di Marchionne ma anche all’Iran degli ayatollah, il cui destino secondo Trump è ormai segnato dalle sanzioni e dallo strangolamento economico. Sul valore di Marchionne come manager visionario non ci sono dubbi. Ma abbiano anche altre certezze figlie dei tempi. Per sopravvivere e diventare un marchio globale Fiat non è più italiana da un pezzo: lo dimostrano anche le dimissioni di Altavilla, l’ultimo dirigente italiano al vertice del gruppo.
Questa è la storia di un lungo addio, cominciato da una generazione, che avvicina strettamente le vicende di una fabbrica a quelle di un intero Paese e ai drammi personali e familiari. Siamo a un amaro e definitivo risveglio dai sogni del boom italiano. Ma cosa hanno in comune l’Iran e la Fiat? La figura di Edoardo Agnelli e una fabbrica Fiat in Iran, tanto sospirata e mai venuta alla luce.
Designato dal padre Giovanni come eventuale successore al vertice dell’azienda di famiglia, Edoardo Agnelli ben presto rivelerà scarso interesse per i beni materiali, dedicando maggiore attenzione a temi filosofici e spirituali. Compie viaggi in India, dove incontra il santone Sai Baba, e successivamente si reca a Teheran: qui rimane colpito dalla figura mistica dell’Imam Khomeini e si avvicina all’Islam sciita. Le sue foto alle preghiere del venerdì con i vertici della repubblica islamica si trovano in tutta Teheran dove Agnelli è ancora una figura studiata e riverita.
Il 15 novembre 2000 il suo corpo senza vita viene trovato da un pastore presso un pilone della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata che sovrasta il fiume Stura. La magistratura conclude presto le indagini con l’ipotesi del suicidio ma numerosi libri e articoli rilanciano in questi anni la tesi dell’omicidio.
Secondo alcune teorie, Edoardo Agnelli, molto vicino all’Islam sciita, sarebbe stato ucciso su commissione per paura che l’eredità della famiglia Agnelli potesse passare in mano a un musulmano. L’attendibilità di questa ricostruzione complottista, sarebbe confermata dal fatto che, alla morte di Gianni Agnelli, la sua eredità sarebbe finita alla sorella di Edoardo, Margherita, sposata con Alain Elkann, figlio di un banchiere e industriale di religione ebraica. Perl altro le vicende giudiziarie di Margherita con gli altri eredi riveleranno che in Svizzera gli Agnelli avevano esportato 4,3 miliardi di dollari.
La storia della fabbrica Fiat in Iran è meno complicata ma allo stesso tempo assai interessante. Se ne è parlato per decenni mentre sul mercato iraniano arrivavano i concorrenti francesi della Renault e i sudcoreani della Daewoo: l’Iran è un Paese di 80 milioni di abitanti e produce sul posto almeno 1,2 milioni di vetture l’anno. Un mercato assai promettente.
In fondo la Fiat aveva già aperto degli stabilimenti automobilistici in Turchia in società con la famiglia Koc e l’Iran è un Paese confinante. L’idea incontrava il favore anche dell’Iran Khodro e del suo capo economista Said Leylaz che reputava le auto italiane tra le migliori al mondo e adatte al mercato locale. Fu persino organizzata una manifestazione popolare per favorire l’arrivo della Fiat. Molto si adoperò l’ex ambasciatore Antonio Badini, come inviato speciale in Medio Oriente, ma il progetto rimase sulla carta.
La Fiat non voleva urtare le autorità americane, sempre pronte a boicottare le iniziative europee in Iran, e probabilmente le sensibilità della stessa famiglia Elkann e così fu lasciato spazio alla Renault.
Oggi con l’Iran Trump, che come Israele non ne sopporta l’indipendenza e l’influenza politica e culturale, ha aperto la resa dei conti. Stracciato l’accordo sul nucleare voluto da Obama nel 2015 e che gli europei vorrebbero rispettare, si prepara a imporre sanzioni che vieteranno a banche e società occidentali di fare affari con Teheran. All’Italia questo costerà 27 miliardi di dollari di commesse e 1,7 miliardi di euro l’anno di esportazioni. L’Italia inoltre è il terzo acquirente di petrolio iraniano dopo India e Cina.
Ovviamente non è solo una questione economica ma di sicurezza del Medio Oriente e dell’Europa. L’Italia per suo conto si è già piegata al destino. Decideranno gli americani, a meno che il premier Conte quando incontrerà Trump non abbia un sobbalzo di ribellione. Ma è difficile che ci opporremo alle sanzioni anti-Iran pur essendoci già qualche proposta di soluzione sul tavolo. E poi c’è la Fiat: le chiavi di avviamento, e il suo futuro, le hanno in mano gli americani e i mercati globali, non gli italiani. Alla sovranità economica abbiamo già dato addio, non ci resta che un pallido e forse sterile “sovranismo”.