
Quando dice: «io provo a fare commedie», abbassa la voce, ed è lì che viene fuori l’Enrico Vanzina che non insegue suo padre Steno ma prova a continuare la sua lezione, con amore, senza gara, anche dopo aver sceneggiato più di cento film. È bravissimo nel raccontare le storie della sua vita, nell’evocare i ricordi, cambiando voci e lingue, recitando gli incontri, mimando le facce e la gestualità delle persone conosciute, alternando leggerezza e malinconia, dettagli e campi larghi, è il cinema che si fa a parole, quello che precede la scrittura e poi il girato: che spetta all’altro pezzo della coppia, il fratello Carlo. Insieme possono dire di aver vissuto e di averlo saputo raccontare. A loro si deve il film che dopo “Il sorpasso” di Dino Risi è riuscito a catturare il sentimento dell’estate: “Sapore di mare”. «Noi volevamo proprio evocare “Il Sorpasso”, che rimane il film più bello del cinema italiano: un viaggio, una auto, due amici, ferragosto e il senso della vita. Abbiam cercato anche Catherine Spaak ma non poteva. E, poi, proprio quelli che i produttori non volevano, sono stati gli attori che più hanno beneficiato di quel film».
Ma quanto di voi c’era dentro?
«Molto, è tutto vero, ma niente è autobiografico, noi non ci siamo, però c’è tutto quello che abbiamo visto in quegli anni: dalla prepotente invasione dei milanesi, alla scomposta simpatia dei napoletani, dai nobili venuti giù dal quadro alle signore come il personaggio della Lisi».
Sbaglio o lei ama l’estate come condizione narrativa.
«D’estate gli italiani danno il meglio: il povero si finge ricco, l’uomo sposato dice di non esserlo, si creano le condizioni per quella che è l’anima della commedia. Basta leggere Tolstoj, Cechov, Proust per capire che la vacanza, il semplice trasferimento, è generatore di storie e di equivoci, cambiamenti, strappi. Dopo aver visto mezzo mondo, sono convinto che l’estate italiana sia la più bella, si porta dietro con naturalezza sia la letteratura che il cinema. Le faccio un esempio: mia moglie ha questa casa a Fregene e di fianco c’è una villetta che viene affittata ogni volta a gente diversa, qualche estate fa, sento un ciac ciac di acqua, e mi accorgo che viene dai vicini, mi affaccio e vedo un omone che pesta in una bacinella, scopro che è un macellaio, al telefono sta dicendo: “No, guardi signora ho chiuso, me sto a godè era mare de la Sardegna”».
Una scena servita. Chissà quante altre ne sono uscite da quella casa.
«Moltissime. I telefonini hanno innovato le storie. Agli albori ricordo un altro vicino che passò agosto a cercare campo, era tutto un: “Me senti?”.“Ah, nun me senti?”. “Ma io te sento”.“Allora me sposto”. Al milionesimo: “Me senti?” Gli ho urlato: “Lui no, ma io sì, stai a rompe da ‘n mese”. Là gli mettevi Brignano era fatta. Una estate a cercare la linea».
Ma invece le sue estati da piccolo?
«Devo fare una premessa, noi vivevamo in un film di Frank Capra, dove c’era un signore, mio padre, che la mattina si metteva giacca e cravatta ma andava a fare cinema. Le estati dipendevano dai film: abbiamo fatto delle estati western con Tognazzi e Vianello, altre con i pirati sul lago di Garda, altre ancora in Grecia con Totò».
Ma non c’era un posto dove tornare?
«Sì, Castiglioncello, non lontano da Livorno, attraversavamo il paesaggio dei Macchiaioli. Che era un posto dove andava anche Pirandello a trovare Emilio Cecchi, e infatti fu Suso Cecchi D’Amico a portarci tutto il cinema italiano. Gassman, Visconti, Age e Scarpelli, Sordi, Risi, ma soprattutto Paolo Panelli e Bice Valori».
Perché?
«Panelli in estate girava dei film bellissimi, con Mastroianni a fargli da spalla. Ne ricordo due meravigliosi. “Selvaggio amore” che era una telenovela da sbellicarsi. E poi “Weekend a Saturnia” dove lui e Bice Valori andavano in vacanza incontrando il divo Mastroianni reduce da “La dolce vita”, lei se ne innamorava ma scopriva che lui soffriva di flatulenza. Si rideva tanto».
Ci credo. E il resto del tempo?
«Nei pomeriggi di noia, suonavo il piano. Poi arrivava Nino Rota e facevamo un gioco bellissimo. Lui mi suonava le sue musiche, e io potevo scegliere in che versione ascoltarle. Chessò il motivo de “La strada”, dicevo Chopin o Gershwin e lui eseguiva».
Rota che fa il jukebox vivente mescolando le epoche. E le altre estati?
«Ischia, Capri, e poi la villa di Carlo Ponti ad Amalfi dove Polanski girò “What?”. Per me è un cerchio magico questo giro, con Napoli al centro, dove c’è una estate italianissima eppure internazionale. Poi in quella casa, anni dopo, ho voluto portare mia moglie».
L’ha portata nel passato. Lei ha questa vena nostalgica, di saudade, che traspare in ogni film che scrive.
«Sì, una malinconia che nasce dalla troppa allegria vissuta. Che poi sono legato al Brasile. Di ritorno dal Perù dove ero andato per la tesi di laurea e mi son sentito male. Chiamo mio padre, che a Rio aveva girato “Copacabana palace”, e lui chiede aiuto a Mylène Demongeot, l’attrice del film, che venne a prendermi col suo compagno: Jobim. Feci la convalescenza a casa sua».
Ed ha suonato con lui?
«Sì, e c’erano anche João Gilberto e Vinicius de Moraes».
Il piano le ha regalato incontri superiori al cinema.
«Sì, ma le racconto un’altra storia. Dove il piano sembra marginale ma non lo è. Dopo la laurea, eravamo a New York e io facevo da interprete per i sopralluoghi di “Anastasia mio fratello”, e conobbi Tony Anastasia, fratello di Albert. Gli feci simpatia e mi scrisse un biglietto di presentazione, se fossi passato a Las Vegas. Il mio regalo di laurea era di poter rifare il viaggio di Kerouac, e ci passai. Mi ricordai del biglietto, lo mostrai a un portiere e quando arrivò: Al “Mokey” Faccinto, un Luca Brasi intelligente, capii la potenza della mafia italo-americana. Mi fece dare una suite al “Crystal”, dove c’era un pianoforte, mi spiegò che i Casinò funzionavano come il cinema: ognuno doveva recitare la sua parte; ma soprattutto mi fece conoscere una donna meravigliosa che avevo adocchiato in piscina, dicendole che ero un grande regista, ed esibendo come prova la mia suite col pianoforte. Quella è stata l’estate più bella della mia vita».
E quella più strana?
«Forse a 15 anni, dopo aver letto la “Recherche”, a casa mia c’era questa edizione di Gallimard di cui avevo scelto per caso il primo volume. Poi a scuola, con un mio amico, che era il nipote di Peggy Gugghenheim, ci ritrovammo ad amare quell’opera, e decidemmo di andare in pellegrinaggio nei luoghi di Proust. Ci ritrovammo noi due, e tutti professori, critici, studiosi. Immagini la scena».
Sembra che lei abbia vissuto in funzione dell’estate.
«Devo citare Flaiano: Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla».
C’è una cosa che l’estate le ha insegnato?
«Che aveva ragione Leo Benvenuti quando diceva: “In fondo la vita sono venti estati utili”. È tutto lì».
*Da Il Mattino