Una delle ragioni per le quali il nostro Paese non riesce ad uscire dal pantano politico-istituzionale, va individuata nella scarsa propensione delle nostre classi dirigenti all’autocritica. Tale capacità, che connota sempre le élite, può essere indotta solo da un serio confronto con la storia nazionale. Alcuni, tra i politologi più noti, stanno elaborando un approccio critico alla nostra contemporaneità. Tra essi, uno ruolo di rilievo è svolto, da anni, da Giorgio Galli, studioso di vaglia, già ordinario all’Università di Milano.
Lo si evince dalla sua ultima pubblicazione, La stagnazione d’Italia. Dalla ricostruzione alla corruzione in dieci nodi della storia italiana dal 1945 al 2017, fresco di stampa per i tipi dalla OAKS editrice (euro 12,00). Il libro raccoglie gli esiti di una serie di conversazioni intrattenute dall’autore con Luca Gallesi e Gian Guido Oliva. Dalle pagine del volume emerge una esegesi delle vicende italiane che, da un lato, colloca il Bel Paese lungo la traiettoria storico-politica seguita dalle democrazie d’Occidente, segnate, dapprima, dalla conquista dei diritti e del welfare nel “Trentennio glorioso” fino agli anni Settanta, e in seguito connotate da una netta inversione di tendenza, amplificatasi con la crisi del 2007. Nonostante ciò, le pagine di Galli fanno emergere, in modo altrettanto chiaro, l’ambiguità del caso Italia, stretto attorno a dieci nodi irrisolti e drammatici.
Il primo di essi è colto nel ‘golpe invisibile’, evocato da Ferruccio Parri, messo in atto ai suoi danni nel 1945. Quanto accadde in occasione della caduta del governo presieduto dal leader partigiano, fu magistralmente registrato in una pagina di Carlo Levi, nel romanzo L’Orologio. Levi qui descrive, servendosi di pseudonimi, l’azione politicamente ‘stabilizzatrice’, messa in atto, dopo l’effimera parentesi resistenziale, dal segretario liberale Cattani, da De Gasperi e da Togliatti. In una parola “le forze della continuità e della restaurazione […] presero il sopravvento sulle forze della trasformazione e della rivoluzione democratica” (p. 11). L’accordo tra il leader DC e Togliatti prefigurava la futura polarizzazione del bipartitismo imperfetto, che bloccherà la dialettica politica per lungo tempo. IL PCI, con la defenestrazione di Parri e l’accantonamento delle sue riforme economico-fiscali, accettò le imposizione moderate della DC, favorendo il riemergere della classe dirigente prefascista. Il Paese reale tornò ad opporsi al Paese legale.
L’egemonia moderata venne confermata con il plebiscito elettorale pro DC del 18 aprile del 1948. La reazione comunista alla marginalizzazione politica delle masse fu teatralmente inscenata subito dopo l’attentato di Pallante al ‘Migliore’, il 14 luglio di quell’anno mirabile. Le piazze non potevano capovolgere il risultato del voto, e la classe dirigente comunista mostrò il suo velleitarismo, non riuscendo né a guidare, né, tantomeno, a sconfessare le manifestazioni violente esplose nelle nostre città. Non fu la vittoria di Bartali al Tour a placare le folle inneggianti alla Rivoluzione, ma l’azione dei vertici ‘normalizzatori’ del PCI e quella del governo. Le elezioni successive mostrarono un tratto che resterà invariato nella vita contrastata della Prima Repubblica “un costante travaso di voti dai socialisti ai comunisti fino all’implosione dell’URSS […] e, a destra, un costante ammonimento alla DC perché non si discostasse da posizioni conservatrici” (p. 27). Ma paradossalmente, proprio l’apertura di Tambroni al MSI di Michelini, che si apprestava, con il Congresso di Genova del 1960, a storicizzare l’esperienza fascista, fu l’espediente con il quale si chiuse definitivamente la parentesi centrista e si inaugurò l’apertura ai socialisti. La lunga e discussa stagione del centro-sinistra. L’operazione Tambroni-Gronchi ebbe un seguito nel 1976, con la scissione di Democrazia nazionale dal MSI, che avrebbe dovuto offrire un appoggio a destra alla DC, per impedire il compromesso storico. A dire di Galli tale tentativo sarebbe fallito: i DC, Moro in particolare, erano fermamente contrari all’ingresso dei comunisti nella stanza dei bottoni.
Nodo cruciale della storia della prima Repubblica è da individuarsi nell’omicidio di Enrico Mattei “La morte di Mattei consegna l’Eni a Cefis, uno dei protagonisti del’golpe invisibile’ di ceti senza capacità imprenditoriali” (p. 39). L’ascesa politica di questo personaggio, rappresentante del capitalismo parassitario, indusse il socialista di sinistra Riccardo Lombardi, a rifiutare l’incarico ministeriale che gli era stato proposto nel primo governo Moro. Il “tintinnare di sciabole” prodotto dal presunto golpe del generale De Lorenzo, servì in verità a coprire la responsabilità di politici in combutta con l’emergente capitalismo affaristico-burocratico. Si affermò, in tal modo, la “strategia della tensione” o, per dirla con Galli della Loggia, la stagione delle “tensioni con varie strategie”, di cui furono protagonisti servizi segreti, fascisti, anarchici, mafia e massoneria (P2). Le stragi, e Piazza Fontana in particolare, per Galli dovevano servire a bloccare l’avanzata delle sinistre. Sotto il profilo elettorale, il risultato non fu conseguito. In realtà, il vero golpe lo preparava l’Italia ‘sotterranea’ “né fascista né antifascista […] e avente come protagonista un ceto finanziario speculativo del quale è emblematico proprio Michele Sindona” (p. 56). Si trattò di un golpe bianco, che utilizzò i soggetti politici disponibili su piazza, forte di protezioni internazionali, soprattutto nord-atlantiche.
Il nodo essenziale della storia italiana, quindi, è da individuarsi nella lotta intestina che contrappose la borghesia tradizionale, incarnata dalla famiglia reale dell’imprenditoria italiana, gli Agnelli, alla nuova ‘borghesia di Stato’, affaristica in senso greve e parassitaria. La sua azione sulla scena politica nazionale sarebbe stata impersonata da politici, all’interno della sequela che da Cefis passa per Craxi ed, infine, giunge a Berlusconi e Renzi “personalità politiche con forti analogie” (p. 58). Un segno del cambio delle consegne, a favore del nuovo ceto borghese, sarebbe da individuarsi nella indegna liquidazione che fu realizzata a danno di un’industria prestigiosa, l’Olivetti. A differenza di Galli, siamo convinti che tale disputa sia stata una guerra per bande. Quella che lo studioso milanese definisce la borghesia tradizionale, in realtà non fu mai tale. La FIAT è un’industria della ‘borghesia di Stato’ che, proprio come le imprese dei paladini dell’ultimo capitalismo nostrano, forse con minore evidenza e clamore, ha cercato comunque di profittare di governi e regimi diversi, fascismo incluso. I nodi della storia italiana si scioglieranno solo quando tornerà al centro della scena nazionale l’obliato, a destra e a manca, bene comune.
Un libro che discutendo il nostro passato recente, consente di pensare a scenari futuri che non sembrano promettere grandi cambiamenti.