Pubblichiamo un puntuale intervento di Claudio Bazzocchi, intellettuale di sinistra colto e realista, su una questione lessicale cruciale per leggere il nostro tempo
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Non esistono i migranti, esistono gli emigranti.
Direte, che cambia una “e”? Cambia. Cambia perché quella “e” ci indica che si proviene da un paese, da una storia, da un vissuto, da una situazione di difficoltà.
Oggi, si usa perlopiù la parola migranti senza la “e” perché l’ideologia “no border” è diventata in qualche modo egemone e ha insinuato l’idea della migrazione (senza “e” appunto) come modalità di attacco al potere, a qualsiasi potere, da quello degli Stati (confini, eserciti, polizie) a quello della finanza. Assieme alla “e” scompare dunque il fatto che si fugge dalla desertificazione materiale (siccità causata dallo sfruttamento intensivo di intere regioni e da un modello di sviluppo industriale insostenibile che ricade sui paesi più poveri e più caldi) e culturale (corrosione dei legami sociali e delle culture tradizionali in favore dell’indistinto miraggio verso i consumi), che si scappa dalle guerre (in cui i paesi del Nord hanno evidenti responsabilità), da ecosistemi invivibili sia in senso materiale sia in senso culturale. Si fugge da una sostanziale deculturizzazione (riempita solo dai fondamentalismi, a loro volta prodotti quindi dallo stesso Occidente che depreda e lascia il deserto fisico e spirituale) per approdare alla deculturizzazione occidentale, che però risulta almeno più comoda con le sue luci e i suoi colori.
Leggo e sento dire che chi sbarca sembra messo bene fisicamente, in carne, e quindi non avrebbe la necessità di emigrare. Sì, perché per noi l’africano deve essere pelle e ossa con le mosche che gli girano attorno come se fosse un quasi cadavere. Questo è il nostro stereotipo. Fuori da quello, non si può emigrare. Siamo diventati così aridi (deserto interiore anche il nostro) da non capire che si può fuggire anche dall’insensatezza, da giorni tutti uguali di vite senza senso, senza legame sociale, senza futuro, senza solidarietà, una volta allentati tutti i legami comunitari del passato a causa del deserto che noi occidentali abbiamo causato nei paesi più poveri dopo averli depredati.
Ecco che la “e” è importante. In quella “e” c’è la terra di provenienza, ciò da cui si fugge, un ambiente che sta diventando sempre più invivibile da più punti di vista, non solo materiali. Ma tutto questo non ci importa. Preferiamo utilizzare da mattina a sera i nostri tablet e telefonini senza curarci che il minerale “coltan” che serve per farli funzionare si trova in Africa e ha ridotto in schiavitù milioni di africani fra Congo e dintorni. In quella “e” dovremmo considerare, per esempio, anche quello.
Da più di vent’anni, antropologi, sociologi ed economisti ci raccontano nei loro libri che l’Africa si sta deculturizzando, sta diventando un deserto senza acqua e senza cultura, senza quindi le necessarie risorse per costruire un futuro autonomo. Diventa cioè sempre più difficile che si aiutino e che possano essere aiutati “a casa loro”. E questo ci dovrebbe far pensare anche all’Occidente. In fondo, noi stessi stiamo vivendo lo stesso processo di desertificazione culturale e forse addirittura psichica: sempre meno impegno politico, sempre meno legami sociali e comunitari, sempre meno pietas popolare, sempre meno consapevolezza culturale e spirituale del nostro posto nel mondo. Solo che noi non possiamo emigrare. Stiamo già nel posto più ricco (che però si sta trasformando a sua volta in un deserto interiore oltre che materiale, e non certo per colpa di chi emigra).
Sono allora sconcertato da tre cose:
1) dai razzisti di destra e su questo non credo di dovermi dilungare;
2) dai “no border” di sinistra e libertari che pensano che migrare (senza “e”) sia un mondo per ricostruire umanità e sconfiggere il potere;
3) da quelli di sinistra che per essere “popolari”, per pensare di rappresentare il “popolo” (che in realtà è quasi desertificato come quello che emigra dall’Africa) adottano sostanzialmente la stessa retorica dei razzisti di destra.
L’unica cosa che mi sento di dire è questa: partiamo dal deserto che ormai accomuna europei ed emigranti. Guardiamoci dentro e proviamo a capire quanto questo modello di vita ci abbia prosciugato di umanità, senso della vita, spiritualità, cultura, legami sociali. Facciamo finta di niente, ma stiamo accogliendo il nostro stesso deserto. E forse è proprio questo che ci spaventa: specchiarci nell’insensatezza degli altri.