Il popolo non deve essere rieducato ma rispettato e compreso. Di più, bisogna farsi carico di quelle criticità che vive quotidianamente e che lo hanno portato a scommettere sul monstrum bifido populista incarnato da Salvini e Di Maio. Il dibattito a sinistra è aperto, e capofila in difesa del popolo c’è Carlo Freccero che sul Manifesto si confronta con il sociologo Alessandro Del Lago.
Freccero, intellettuale irregolare, provocatore oltre gli schemi, capace di cogliere il senso profondo dello spirito del tempo tanto da definirsi egli stesso “sovranista”, ha elaborato una critica ragionata agli intellettuali che da mesi chiamano alle armi i “migliori” nella lotta frontale all’ascesa politica del populismo. Quei pensatori provenienti da una cultura “differente” e non conforme, quindi non di sinistra, devono cogliere nelle sue parole l’occasione per aprire un dialogo con il mediologo intorno ad alcuni punti chiave del suo discorso.
Ci colpisce l’invito di Freccero a prendere atto che la pretesa di un certo mondo intellettuale di rieducare il popolo, in una sorta di azione pedagogica prepolitica, nasconde una visione antidemocratica che non può essere condivisa da chiunque consideri ancora valida l’idea di sovranità del popolo stesso.
La nostra sinistra non è capace di incidere nel dibattito perché sconta l’assenza di un pensiero critico. Essa ha abdicato alla responsabilità di leggere il presente, accontentandosi di calare dall’alto formule astratte create artificialmente nei “laboratori” democratici. L’attacco di Freccero è diretto a coloro che hanno utilizzato i luoghi dove si crea pensiero (giornali, tv, Università) per disegnare una forma reazionaria di potere culturale verticistico che, nel mentre si espandeva come una forma di imperialismo intento a sopprimere ogni elemento impuro e non prono alle sue direttive, vedeva restringersi il proprio ruolo di élite culturale, perché incapace di distinguere le contraddizioni insite nell’idea di società e di individuo che elogiava e alimentava.
Le parole degli intellettuali hanno costruito un racconto inesistente, effettuando un maquillage della realtà che ha oscurato la verità sensibile e carnale. Ma oggi, caduta la maschera del sapere, ecco il volto della vita, cruda e nuda. Il sociologo Michel Maffesoli da sempre insiste su un monito: ciò che viene costretto a rimanere nell’ombra è solo ciò che da un momento all’altro esploderà nelle forme più estreme e impensabili, spazzando via le istituzionalizzate e ormai sature forme che lo reprimevano.
L’invito a Freccero è di creare una nuova piattaforma di confronto fra coloro che seppur con sensibilità politiche diverse, vogliono porsi come intellettuali radar, al modo inteso da McLuhan, cioè capaci di auscultare il presente, sentendo inoltre ineludibile riconfigurare le categorie del pensiero critico perché stanchi dei cantori di un mondo che non esiste più e che, ormai ridotto a una loro proiezione, continuano impenitenti a raccontare dai loro troni.
Freccero – questo l’auspicio per aprire una nuova stagione di confronto intellettuale a tutto campo e diventare argine a ragionamenti atrofizzati su categorie inadatte al contemporaneo – ha la caratura per svolgere in Italia l’opera di rottura che ebbero Glucksmann e Finkielkraut (quest’ultimo ancora oggi) in Francia quando decisero, da sinistra, di rompere gli schemi della cultura e della politica francese, rimettendo al centro il confronto delle idee basato sulla realtà e non falsato da irrigidimenti settari e ideologici. Noi siamo pronti.
*Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria e autore di Imagocrazia (Meltemi, 2018)
L’articolo di Carlo Freccero
Ho scritto sul manifesto del 6 giugno, che con l’adesione acritica alla terza via del neoliberismo la sinistra è diventata non l’antagonista del neocolonialismo globalista, ma addirittura, la sua maggiore fautrice. Aggiungendo che, in quanto sinistra, non può palesare le sue intenzioni. Un’esponente della destra come Trump può bombardare in nome della superiorità militare americana al grido “America First”. Una neocon liberal come Hillary Clinton o un buonista come Obama, devono trincerarsi invece dietro lo schermo dell’esportazione della democrazia.
La sinistra del politicamente corretto si estingue perché non riesce più ad elaborare un pensiero critico. In questi anni ha creduto alla favola dei dittatori cattivi e, come unico rimedio, ha proposto l’accoglienza dei profughi, vittime non dalla guerra, ma dei loro stessi governanti. Ha fatto propria l’equazione fascismo = comunismo. Si è schierata sempre dalla parte sbagliata. Questo perché la terza via non è che l’espressione del pensiero unico per cui tutto il resto è totalitarismo.
Di questo pacchetto di riforme dell’originario pensiero di sinistra, fa parte l’idea che la democrazia preveda una frattura popolo/élites, e che le élites debbano guidare un popolo incapace di autodeterminazione.
Confesso che le mie idee sulle élites nascono, come reazione, alla lettura del libro Propaganda di Edwards Bernays. Bernays, l’inventore della propaganda, la giustifica a partire dall’esigenza di piegare il popolo, mosso da istinti bestiali, ai voleri delle élites che invece perseguono a livello sociale, interessi legittimi. Questa visione elitaria della democrazia fa parte della visione del mondo americano. Ma, per fortuna, non è condivisa dalla nostra Costituzione che all’art.1 recita: «La sovranità appartiene al popolo».
Ma, polemizzando con queste mie considerazioni, sul manifesto Alessandro Dal Lago scrive che anche Gramsci credeva nelle élites. Siamo qui davanti all’ambiguità della parola élites che significa cose diverse in Europa o in America. Le sinistre europee, secondo la classica priorità del capitale culturale sul capitale economico, attribuivano al capitale culturale le élites.
Viceversa l’America ha sempre e solo conosciuto il capitale economico. In un contesto neoliberista élites significa élites economiche, quindi multinazionali e banche con tutto il sistema di propaganda che le circonda. Il disprezzo del popolo in quanto incapace di conseguire risultati economici ha a sua volta radici nell’etica protestante che, come Weber ci insegna, attribuisce al ricco l’evidenza della grazia Divina.
Concludo sui migranti. Sono reduce da Migranti Film Festival di Pollenzo, dove ero in giuria.. Ho visto un film bellissimo, The Fifth Point of The Compass di Martin Prinoth che spiega il disagio della migrazione più che tutta la teoria. E’ la storia di un ragazzo straniero adottato in Sud Tirolo, cresciuto nella nebbia e nel gelo, che indagando sulle sue radici, riesce a ritornare nel suo paese. I bisogni identitari e culturali non sono necessariamente fascisti o di destra e l’occidente non è necessariamente il migliore dei mondi possibili. Temo che la sinistra, privata dalla sua classe di riferimento, il proletariato, abbia fatto dei migranti una sorta di foglia di fico per dimostrare di essere ancora dalla parte dei più deboli.
Ma i migranti non sono il nuovo proletariato perché la loro coscienza identitaria non è qui ma altrove. Hanno diritto a non essere culturalmente sradicati, a meno che non si tratti di una loro libera scelta. Viceversa gli abitanti dei quartieri più poveri in Europa, hanno diritto a non essere sradicati dalle loro usanze da parte di un’immigrazione culturalmente eterogenea. I migranti non risiedono in via Montenapoleone e non portano via lavoro agli amministratori delegati. Decidere come fanno le élites che il popolo è brutto sporco e cattivo perché non vuole accoglierli è ingiusto. E’ il popolo che porta il peso dell’immigrazione con la perdita di valore del lavoro manuale.
La svalutazione del lavoro in questi anni di ordoliberalismo e di euro, è stata possibile solo grazie all’esercito di riserva costituito dai migranti. E’ logico che le élites economiche siano favorevoli all’immigrazione. Le libera dall’incombenza di delocalizzare dove c’è disperazione, portando la disperazione direttamente qui. (da il Manifesto 12 giugno 2018)