In principio ci fu il sogno megalomane dei fratelli Coppola: costruire una città, poi l’emergenza terremoto e lo sbarco degli americani, dopo la camorra e l’africanizzazione, il resto è cinema. Castel Volturno è un miracolo: un territorio sfilacciato, diroccato, in eterna ricostruzione che, però, continua a produrre bellezza e stupore, grazie alla sua versatilità. Figlia di una marea di egoismi – che hanno generato un catalogo di architettura da far invidia alla Dismaland di Banksy – ha partorito una generosità che riesce a coprire ogni gamma di colori, a contenere uomini e donne lontanissimi tra loro, al punto di sembrare una invenzione; ma dietro non c’è Banksy ma la storia – con l’emigrazione e la malavita – un parco giochi spontaneo e crudo, che da sogno è diventato incubo e poi di nuovo sogno. Una città che si è retta e si regge sulle promesse, in pratica una frontiera edificata con dei fili di lana che si spezzano e riannodano di continuo e sempre con e per mani diverse. Abusiva – in larga parte – è diventata una Ellis Island che accoglie e sopporta, accoglie e cresce, tanta Africa, che incuba il male e ci scherza, che genera il bene e ci passa su, che inanella particolarità architettoniche e umane, facendole convivere tra prostituzione e spazzatura, tra abusivismo e bellezza. In questo posto, dove tutto quello che è vero sembra finto, da almeno un ventennio – con un incremento negli ultimi anni – cinema e serie tivù trovano un naturale scenario dove innestare storie. Castel Volturno può essere tutto o quasi, perché ha spiagge, pineta, mare e fiume, torri e palazzoni, è un corpo di terra, carne, cemento e acqua che può essere trasformato all’occorrenza. Qui, film diversissimi trovano esterni ed interni che si lasciano filmare e reinventare, riscrivere o raccontare al naturale. È una nuova Cinecittà, spontanea, che fornisce teatri di posa improvvisati e facce e storie: se proprio serve. Che arrangiandosi è divenuta mezza possibilità d’industria. La sua forza sta nel lasciarsi scrivere e poi dimenticare, nell’intrico smarmittato di desideri che si annodano e sciolgono, al punto che tutto – proprio tutto – può convivere, attraversando una continua estasiata agonia, dove la storia si mischia alla finzione, dove finisce un film ne comincia un altro e un altro ancora che prova a raccontare quello che non sembra essere possibile, contiguo, e invece lo è. Qua Matteo Garrone ha girato “Dogman” facendone un paese western che evoca la Magliana, una doppia riscrittura, che diventa un luogo senza nome, e sedici anni prima aveva trovato sempre a Castel Volturno l’ambientazione per il suo “L’imbalsamatore”, e successivamente per scene di “Gomorra” il film, che poi anche la serie con Stefano Sollima e gli altri aveva utilizzato; tra le tante scene va ricordata quella girata all’Hotel Boomerang, giostra di spaccio, che viene murato e liberato, abbandonato e ripreso, con una ciclicità da campo di grano.Qua Liberato trova un cortile caraibico per uno dei suoi video, e i Manetti Bros una spiaggia dello stesso parallelo, le palme, le strade larghe e la quantità di umanità fanno il resto, basta metterci la macchina giusta e inquadrarla come si deve. Che sia periferia del mondo o di casa, che servano ville scassate e mare di macerie, punizione apocalittica o campo lungo di solitudine dechirichiana, c’è, e se non c’è si può fare. L’uomo che trova i posti è Raffaele Cortile, il suo nome va nei titoli di coda, ma la sua funzione è centrale, prima per Castel Volturno e poi per il cinema italiano che viene a girare qua. È l’ingranaggio, ed è anche un involontario abusivo – ovvio – operatore sociale, ha capito con altri pochi che la confusione strutturale, gli errori urbanistici, la speculazione edilizia, potevano essere rivoltati dal cinema, e fare bene, in attesa dello Stato. Che sia Pineta Mare, dove sorge quel che resta del villaggio Coppola – una storia hollywoodiana pronta per una serie tivù, basta guardare l’Esplosione di Giovanni Piperno – che tra abbattimenti e ricostruzioni è riuscita ad essere negli anni: Miami, Singapore, Beirut e molto altro, e pensare che doveva solo essere una antenata della Milano Due berlusconiana, con le moderne torri saracene che affacciavano sul Tirreno. Una interminabile parete di muri e finestre che salta e si riaggancia, che cade e si riedifica, ancora tutta da disegnare, scrostata dal tempo e in attesa di essere colorata dal cinema. Sotto questa parete, Daniele Manzo, psicologo, mi racconta i suoi anni “americani” e sembra un film, naturalmente, quando il villaggio era occupato dai militari della Nato, e a lui sembrava di vivere negli Usa, tra pub, felpe, lingua inglese e partite di basket che lo vedevano giocare tra turchi e neri, in una anticipazione di futuro che sarebbe divenuta inaspettata finzione sullo schermo, mentre lui si era trovato nel film della verità. È questo quello che attraversano gli abitati di Castel Volturno, un continuo salto tra fiction e non, trovandosi ad aver vissuto una parte di quello che vedono poi rappresentato e recitato: l’esempio è “Là-bas” il film di Guido Lombardi che raccontava la strage di Castel Volturno: sei ragazzi africani uccisi dai casalesi. Da verità vissuta a finzione ri-vissuta. Il film ha una scena molto bella sullo scivolo blu stinto di un acqua-park che ora è stato demolito, in questo percorso di trasformazione da città asiatica, il cinema sta divenendo anche memoria architettonica. Ora al posto del parco acquatico c’è uno dei tanti vuoti urbani da colmare. Alla base di quello scivolo veniva ritrovato anche un cadavere in “Fortapàsc” di Marco Risi che raccontava la storia di Giancarlo Siani interpretato da Libero De Rienzo. Cambiando spiaggia, a Destra Volturno, si trova la villa delle sorelle siamesi Dasy e Viola, le “Indivisibili” di Edoardo De Angelis, dove la luce bellissima che cade su questa costa viene pastellata di blu da Ferran Paredes. Quasi di fianco, in una contiguità che da cinematografica diventa da alveare, c’è la villetta utilizzata da Fortunato Cerlino per allevare cani in “Falchi” di Toni D’Angelo, e dall’altro lato c’è la casa dove muore Malammore, personaggio di “Gomorra”, la serie. Di fronte c’è il lido “Annarella” – una esplosione di rosso tra il grigio di intonaci vecchi che stanno intorno – con la proprietaria che vuole raccontarmi i danni del mare d’inverno mentre pianta ombrelloni a due passi dalle macerie e che, invece, poi si lancia in un elogio di Marco Tullio Giordana, che qua ha girato “Due soldati”.
Non molto lontano – a Liternum una antica città romana situata nella frazione di Lago Patria nel Comune di Giugliano – allungandosi sulla Domiziana, c’è l’Elmo di Scipio, e quel che resta del corpo che lo portò, l’Africano, il generale che sconfisse Annibale, un verso del nostro inno e un tratto importante della nostra storia, avvolto da un nervoso trafficare di umanità. Un incrocio di civiltà e racconto, dove si rimette in discussione e si esercita allo stesso tempo, in istanti dolorosi e comici, la virilità ereditata, tra gioco e finzione: è il film da fare, sommando il cinema già girato alle imprese passate sopra e sotto l’Elmo.
[Uscito su IL MATTINO; foto di Renato Esposito]