Se nel 1968 si fosse chiesto a chi era stato un adolescente nel 1918 che cosa, cinquant’anni dopo, c’era ancora della sua Italia d’allora, la riposta più probabile e, insieme, la più vera, sarebbe stata: «Niente».
La Grande Guerra e poi il fascismo, la Seconda guerra mondiale, la caduta del Regime, la guerra civile, la resa e la liberazione, la Repubblica democratica e antifascista al posto della monarchia, la ricostruzione, il miracolo economico e il boom ridisegnano la nazione da capo a piedi, non solo socialmente, anche geograficamente. Quel ragazzo di un tempo è un vecchio per il nuovo mondo che pure ha contribuito a edificare: per quanto opera sua, nulla lo rimanda a ciò che era stato, abitudini e valori, costumi e convenzioni.
Nel mezzo secolo che invece ci separa dalla contestazione sessantottina, le differenze sono molto più sfumate, e non solo e non tanto perché si è trattato comunque del più lungo periodo di pace attraversato dal nostro Paese (e dall’intera Europa occidentale). È un qualcosa che ha a che fare con la modernizzazione in senso lato della società, un’idea di sviluppo indefinito quanto costante che nell’uniformare ed espandere i consumi porta con sé la crescita di una società di consumatori omologata nel suo essere interscambiabile e dove fermo restando l’infanzia e l’estrema vecchiaia perché impossibili da truccare il modello è una sorta di giovinezza perenne, ovvero senza età, spesso e volentieri unisex. È un’illusione, naturalmente, e lo dimostra lo sguardo perplesso dei figli rivolto ai padri vestiti come loro, ma poiché l’anagrafe gioca a favore di quest’ultimi un’Italia sempre più di pensionati e di culle vuote si preferisce pensare che sia la realtà e ci si attrezza perché la festa continui, una fontana dell’eterna gioventù.
È anche per questo che il Sessantotto è infinito; è, appunto, l’infinito Sessantotto, perché il modello impostosi allora, l’educazione sessuale e l’università di massa, la parità sul lavoro e il doppio stipendio, il divorzio e il venir meno della famiglia tradizionale, l’aborto e il venir meno della famiglia numerosa si sono consolidati nel tempo divenendo una sorta di status quo. Sotto questo aspetto, il sessantottino del tempo che fu può guardarsi intorno soddisfatto perché nel tempo che è può ancora riconoscersi, lo sente come proprio.
Eppure, in questo vivere il XXI secolo come se fosse una pura continuazione del Novecento che l’ha preceduto, c’è una sordità divenuta ormai assordante, il non accorgersi, o il non volersi accorgere, che la fine del Novecento ha comportato sia la fine delle ideologie, sia la fine della politica tradizionalmente intesa, i partiti e gli schieramenti di campo, la dicotomia destra-sinistra e le classi sociali. Siamo entrati nel mondo globalizzato avendo come ferri del mestiere categorie usurate e abbiamo finto che potessero essere ancora utili per governare il cambiamento, un cambiamento accettato a occhi chiusi, perché la logica del progresso e della modernità respinge l’idea che il domani possa essere peggiore dello ieri.
È un problema di classe dirigente, nella sua accezione più ampia: le élites intellettuali scuola, università, mass media e quelle economiche industria, imprenditoria, sindacati legate a filo doppio con la nomenklatura politica e quella burocratica, un sistema di potere pervasivo dove si procede per cooptazione. Ciò che da esse ci è stato raccontato era il liberismo travestito da welfare, le politiche di destra possibili solo con governi di sinistra, come ci veniva ripetuto con il tono risaputo di chi ha l’uso di mondo e le buone frequentazioni. Tutt’intorno, il pensiero dominante disegnava una cornice di buoni sentimenti planetari e di rinnovato edonismo libertario dove si mischiavano con disinvoltura l’essere cittadini del mondo e l’equiparazione degli uomini alle merci, il transito dei primi con la logica delle seconde, l’estendersi di nuovi diritti individuali e la difesa di ogni cultura altra nel nome di una cultura globale che la facesse finita con le culture nazionali… Era un gigantesco artificio retorico, dovuto anche al fatto che la fine delle politiche autonome a causa dell’unificazione europea e della moneta unica ha finito con il trasformare i politici in predicatori, guardiani-garanti delle virtù di un popolo accusato da sinistra di razzismo e di xenofobia e da destra di essere lavativo nel suo non voler accettare le riforme che l’avrebbero obbligato a lavorare.
L’alternarsi dei governi senza che questo comportasse un cambiamento di politiche poi la loro blindatura tecnica nell’impossibilità di uscire dalla crisi economica se non a prezzo di tagli dolorosi, rientrano nella logica di un sistema di potere sempre più avulso dal sentire comune e che continuava a trastullarsi con un’idea di comunità nazionale che non esisteva più, si era trasformata e non aspettava che il momento per esprimere il proprio radicale rifiuto. L’incredibile balletto di fine legislatura intorno allo ius soli spacciato per battaglia di civiltà, retorica perché poi alla fine non combattuta l’escalation elettorale su un ipotetico ritorno al fascismo, la montante marea nera dei Casa Pound di risulta, raccontano il pensiero egemone perso e preso da scontri ideologico-valoriali di per sé novecenteschi: il migrante che ha preso il posto della classe operaia, il fascismo come eterna testa di turco… Sotto questo profilo, le elezioni politiche dello scorso marzo raccontano la Caporetto di un sistema politico e di ciò che gli stava dietro quanto a idee, sentimenti, convenzioni e convenienze. Raccontano l’entrata in scena di un populismo che ci si era illusi di esorcizzare demonizzandolo e intorno al quale, in pro e in contro, è destinato a comporsi lo scontro sulla globalizzazione e la fine di un progressismo in cui l’ideologia dei diritti individuali con annessa mondializzazione aveva voluto rendere inutile il diritto dei popoli a difendere il proprio sistema di vita. Se si tratti di una svolta momentanea o di una nuova era, ce lo dirà il tempo. Per il momento, almeno il ’68, finalmente, è archiviato.