La narrazione riguardante il Cammino di Santiago, ha fornito ispirazione per un numero crescente di pubblicazioni, andando di pari passo con la popolarità di quel particolare viaggio: guide, mappe, diari di viaggio, memorie più o meno romanzate, cercano di rendere fruibile l’impossibile, ovvero provano a compensare la saudade rielaborata d’essere tornati a casa, in qualcosa di condivisibile e comunicabile. Impresa ardua, appiccicosa, talvolta rischiosa, perché il lungo pellegrinaggio, nonostante l’affollamento deleterio nella sua rotta classica (Saint-Jean-Pied-de-Port – Santiago) resta a tutti gli effetti un vagabondaggio mentale solitario. Sovente purtroppo, la retorica del ricordo (quell’intima incredulità, riguardo all’impresa portata a termine), trasforma l’esperienza vissuta in un pastiche nostalgico e lo stupore del cammino resta confinato nell’inesprimibile.
Viene in mente un passaggio di Ortega y Gasset: “… il fenomeno dell’agglomerazione, del «pieno». Le città sono piene di gente. Le case d’inquilini. Gli alberghi, pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè, pieni di consumatori. Le strade, piene di passanti. Le anticamere dei medici più noti, piene d’ammalati. Gli spettacoli, appena non siano particolarmente estemporanei, pieni di spettatori. Le spiagge, piene di bagnanti. Quello che prima non costituiva un problema, incomincia a esserlo quasi a ogni momento: trovar posto.” Difatti, al di là di ogni retorica comunitarista e di un vago orgoglio podistico, il vero dramma di quell’esperienza consiste nel tentativo di dar forma alla propria condizione eremitica, sempre messa a rischio; quella pensierosa lontananza da casa, trasfigurata nella ricerca di un posto dove stare che cambia di giorno in giorno, fatalmente transeunte. Fatica, ruscelli, sassi e cieli stellati, contemplati in monologo silente. Così è, ma così non può essere, a causa dell’altro onnipresente, colui che assume mille maschere e idiomi: francese, spagnolo, statunitense, coreano, tedesco russo… null’altro che uno specchio deambulante, dove non ci riconosciamo, convinti di essere gli unici su quella strada. Nonostante tutto, è una questione di sopravvivenza, di spazio vitale, di mettere un passo davanti all’altro.
Se quindi gran parte della letteratura in materia può considerarsi zavorra auto-riferita, diaristica che puzza di Erasmus e oratorio, varrà la pena segnalare un’eccezione meritevole d’attenzione. Da poco in libreria, Santiago e nuvole – Le fantasticherie di un pellegrino solitario (Ediciclo editore) di Stefano Scrima, prova a battere una strada alternativa, già a partire dalla rotta geografica intrapresa. Il Cammino del Nord, o della costa, resta infatti confinato lassù, tra monti, boschi e mare, battesimo nelle fiere terre basche passando poi alle Asturie e alla Cantabria, calando infine in Galizia dopo chilometri infiniti di saliscendi, in un paesaggio scorbutico di rara bellezza. Certamente una scelta coraggiosa – anche se il racconto di Scrima pare caracollante, a tratti disincantato a tratti ferito, come sospinto da una certa casualità – vieppiù se paragonata al classico Cammino Francese o al meridionale Cammino Aragonese. Il bel libretto blu dello scrittore cremonese, già noto per una sfiziosa trattazione “anti-produttiva” (Il filosofo pigro, Il Melangolo, 2017), si distingue dalla classica cronaca di viaggio per il taglio decisamente introspettivo; grazie a un ritmico gioco di riferimenti, imbastito tra l’io narrante e i rocamboleschi accadimenti, tra dotti collegamenti letterari e la spartana quotidianità del pellegrino, esce fuori l’essenza innominabile dell’andar camminando, gradevolmente resa con fluidità di scrittura. Ecco quindi palesarsi gli spunti del pensiero – Cioran, Baudelaire, Unamuno, Hemingway, Chatwin, Hesse, Camus, Stevenson – frammisti confidenzialmente a sapone di Marsiglia usato come shampoo, calzini e borsoni, letti a castello, convivio gioioso oppure no e recessi esistenziali, oltre alla presenza/assenza di una musa francese, assai sfuggevole.
Quale sia questa natura secretata dell’andar con zaino in spalla, nel libro di Scrima assai lontana dall’originaria pratica religiosa così come dalle contemporanee pose “imitatio hippy”, resta affare imperscrutabile, dono assegnato al pellegrino a sua insaputa. Questo misterioso aspetto, in qualche modo fatalistico, è giustamente sottolineato in Santiago e nuvole, prendendo la forma di una chiamata giunta all’impreparato estratto a sorte: non si decide di intraprendere il Cammino, si è decisi, si è prescelti; non ci allena prima, non ci si prepara rendendo turistico ciò che dovrebbe riguardare soltanto l’abbandono, non si organizzano comitive destinate laggiù a sfaldarsi; si è condannati piuttosto, e privilegiati a intraprenderlo, come ubbidendo a un ordine completamente irrazionale – si, mistico – avente a che fare con il raggiungimento utopico di una meta idealizzata o solo simbolica; tanto quanto l’epifania tolkieniana dell’hobbit, lasciandosi alle spalle il proprio piccolo mondo, fatto di certezze, abitudini e minimi rischi controllati. Quell’ancestrale pratica di far fagotto, tutto sommato ancora antiborghese, ha più a che fare con un ripensamento esistenziale, in qualche modo liberatorio. Libertà da qualcosa o per qualcosa? Stefano Scrima prova a rispondere, scavando nei privati abissi semoventi, narrando di sé e al contempo ravvivando l’epica eterna dell’avventura, del viaggio dentro e fuori di sé. Certo, da pellegrino e quindi da suo pari, lo scrivente rimprovera all’autore l’utilizzo dell’autobus, giustificato nel racconto da mancanza di tempo per giungere a destinazione con le proprie gambe. Ecco, questa folle ortodossia del sacrificio totale, oppure della catarsi irresponsabile riguardo a ciò che capiterà dopo (il lavoro? la casa? gli amici? La famiglia?), è un dilemma che tormenta l’autore, conferendo al libro sincerità e quella spiritualità a parole negata.