“Edipo a Colono” di Sofocle per la regia di Yannis Kokkos è lo spettacolo che ti aspetti. Elegante, profondo, attoriale: una celebrazione del teatro antico, della bellezza e dei suoi spesso scomodi valori. Al termine della tragedia quasi cinque minuti di applausi e ovazione per tutto il cast hanno decretato che Siracusa vuole soprattutto questo: una tragedia importante (già nel testo) con pochissimi elementi di modernizzazione, anzi con il moderno ben mimetizzato nella tradizione. Per fortuna Yannis Kokkos ha interpretato la sua regia con una solennità che esalta lo spessore filosofico ed etico del testo, altrimenti sarebbe stato difficile cercare l’emozione davvero forte, un battito d’ala di commozione o di catarsi. Una tragedia espressione di quel concetto di bellezza classica coincidente con l’armonia, con la perfezione fatta di imperfezioni. Ecco perché a Roberto Andò, anche quest’anno direttore artistico del festival del teatro classico (è l’edizione numero cinquantaquattro), va il merito dell’intuizione, da esperto del mestiere, di puntare per il calendario delle prime sul ritmo: aprire con il ritmo incalzante della regia di Emma Dante con “Eracle” e continuare con la lentezza di Kokkos. Ritmo lento, atmosfere a tratti ieratiche per raccontare il lento incedere della vecchiaia, il composto varcare la soglia del mistero di “Edipo a Colono”. La tragedia ha lo stesso passo del coro delle donne: passo lieve, oscillante, delicato. Ultima opera di Sofocle – rappresentata nel 406 a.C. per le feste dionisie- “Edipo a Colono” è la tragedia della riabilitazione di Edipo che, con Aiace e Antigone, è espressione della sua poetica del personaggio: l’eroe singolo, superbo di fronte agli dei, grande nella coerenza delle sue scelte etiche fino all’annullamento di sé. “Edipo ha una vita estranea alle intenzioni”, così Yannis Kokkos racconta il fascino della figura di Edipo ormai vecchio e stanco. Massimo De Francovich assume sul suo corpo d’attore quella stanchezza e fa una prova bella, sebbene all’inizio sembri quasi temere la maestosità del Teatro di Siracusa.
Un Edipo recitato in crescendo: la voce s’inerpica nei due dialoghi con Creonte e Polinice e tocca volumi robusti e appassionati. Kokkos voleva un re Lear e ha affidato a De Francovich (che fu Lear per Ronconi nel 1995) il compito di uccidere il mostro, il diverso, l’estraneo tanto che De Francovich pare quasi ingombrato dalla cecità. Edipo è un prodigio di empietà: ha assassinato suo padre, ha giaciuto con la madre, ha procreato figli disgraziati, ha mutilato se stesso. Sofocle decide, nella tragedia autobiografica, di trasformare la sua diversità in miracolo: inghiottito dalla natura o “Forse dal cielo hanno mandato un angelo? Lui è morto nel miracolo. Ma si sbaglia chi pensa che io sia un pazzo” annuncia il messaggero (Danilo Negrelli), ribadendo il concetto che la follia è lontananza dal dio.L’ultimo Edipo arriva a Colono (città natale di Sofocle), un villaggio immerso nel bosco alle porte di Atene accompagnato dalla figlia Antigone (Roberta Caronia, a tratti monotona). Gli abitanti del luogo, conosciuta la sua identità, vorrebbero (per voce del corifeo, Davide Sbrogiò) allontanarlo, ma il re di Atene, Teseo, gli accorda ospitalità e protezione. Si compie l’oracolo: Edipo, una volta morto, sarebbe diventato un demone benefico e la città che l’avrebbe accolto sarebbe stata inviolabile. Giunge l’altra figlia Ismene (l’interpretazione di Eleonora De Luca riesce nel complesso a rendere l’ingenuità del personaggio) e porta la notizia dello scontro fra i fratelli Eteocle e Polinice. Un altro oracolo: la vittoria di uno dei due dipendeva dall’appoggio paterno. Arriva anche Creonte, re di Tebe, per convincere Edipo a tornare in patria: al rifiuto reagisce portando via con forza le figlie. Teseo le salva. Anche Polinice, spinto dall’oracolo a cercare il padre viene scacciato da Edipo. Il segnale di Zeus è un tuono: Edipo deve avviarsi nel bosco delle Erinni. Qui viene accolto dagli dei. Antigone e Ismene vorrebbero correre a vedere il luogo in cui il loro padre ora riposa, ma Teseo le ferma: nessuno può avvicinarsi a quel luogo, “il buon vicino dei sacri segreti”. Le due sorelle partono verso Tebe. Yannis Kokkos ha affrontato questo testo con un rispetto quasi totale, aiutato dalla traduzione di Federico Condello. Traduzione fedele nella prima parte persino alla prosodia sofoclea, mentre nella seconda parte si fa più discorsiva, più agile. Un neo sono i diminutivi parentali “piccolina, fratellino, bambine” con cui Condello rende il neutro greco τέκνον per cercare l’effetto, mancato, di esaltare la dolcezza di padre del vecchio re cieco, giunto nel momento dell’addio alla vita. Ma non sono i temi la cifra dello spettacolo allestito da Kokkos, sebbene il regista abbia insistito sul fascino per lui di questo racconto fatto dei pensieri filosofici e intimi sull’appressarsi della morte. Lo spettacolo merita di essere visto per le prove d’attore e per l’interpretazione delle musiche, delle luci e dei suoni. La messinscena di Kokkos distrae dal testo. La scena del potere, il tema del festival, qui è davvero scena. Kokkos ha creato per il teatro di Siracusa una scenografia delle sue (è stato scenografo con Antoine Vitez) per mettere in relazione il mondo impalpabile con quello materiale, il leggendario con l’umano, la luce e il buio. La scena è minimalista eppure maestosa. Una divinità enorme volta le spalle al pubblico e si piega verso il bosco, sporgendo la testa oltre la rete e il filo spinato: sul suo corpo è il varco che Edipo dovrà percorrere; vi è dicotomia fisica tra Tebe a sinistra della scena, evocata dal traliccio e dalla torretta d’avvistamento come spazio della guerra, e Atene dall’altra parte con i simboli della porta aperta (altro varco, come a dire che il divino e la giustizia sono complementari) e dell’ulivo. Una scenografia priva di ornamenti, astratta, evocativa, posta oltre il cerchio di gesso bianco che delimita il recinto sacro. Gli elementi scenici sono tenuti a distanza, non vengono abitati dai personaggi, sono passaggio, spinta verticale.
C’è una metafisica degli spazi come dei movimenti. E’ il movimento dei tre cori a colpire di più. Composti dagli eccellenti attori delle Accademie dell’Istituto del Dramma Antico (sezione Giusto Monaco” e “Fernando Balestra”), i cori riempiono la scena nell’alternarsi di strofi e antistrofi, e riconquistano lo spazio dell’orchestra, si pongono come trait d’union tra i protagonisti e l’incontaminato aldilà scenografico e mentale. E’ una tragedia di suoni e di luci, di colori. I suoni sono i rombi dell’aereo che annuncia Creonte.
Stefano Santospago è un meraviglioso Creonte. E meritava dal pubblico l’applauso più scrosciante, riservato, invece, al solito enfatico e inespressivo Sebastiano Lo Monaco (un Teseo che gioca in casa). Santospago sa essere arrogante e solenne al tempo stesso, capace di esaltare tutte le corde del potere tirannico: la volgarità, la violenza, la molestia, l’inconsistenza.
Felici gli applausi per Fabrizio Falco: il suo Polinice ha l’impeto della giovinezza, dell’ambizione, della rabbia che “non ha altra vecchiaia che la morte”.
I suoni sono le musiche e i canti. Alexandros Markeas, autore delle musiche, ha mescolato la vocalità dei canti sacri greci e del canto lirico (ricordiamo che Kokkos ha firmato molte regie liriche): la tragedia inizia con il suono dolce dell’armonica a bocca dello straniero (Sergio Mancinelli) per terminare con la voce tonante fuori campo della divinità. Sottratta alla vista e sottrattasi alla vista, la divinità s’impone come voce. Come luce. Giuseppe Di Iorio realizza un gioco di luce e buio: luce bianca e gialla sul dorso della statua (espediente quasi cinematografico), l’intermittenza del fulmine di Zeus che illumina gli alberi lontani dietro la cavea (resa perfetta del rapporto temporale luce-lampo e suono-tuono),il buio che copre tutti alla fine (tributo alla tradizione). Nella messinscena l’elemento discutibile sono i costumi di Paola Mariani che creano un effetto dejavu (con i costumi delle tragedie della scorsa stagione teatrale) sebbene tentino di integrarsi con le tonalità essenziali e fredde della scenografia. Uno spettacolo alla fine incolore in cui si giustappongono le tre prove d’attore di Massimo De Francovich, Stefano Santospago e Fabrizio Fulco. Tre prove che danno ragione a Yannis Kokkos quando afferma che gli attori sono ” dimensione incarnata con i piedi a terra e la testa alle stelle“. Dello spettacolo di Kokkos però vanno conservate due immagini davvero suggestive. La prima è la cerimonia di purificazione di Ismene: una lustratio quasi battesimale. L’altra è di forte impatto visivo: la gestualità di imperfetta sincronia pantomimica tra il coro muto degli uomini e quello delle donne velate verso la fine della tragedia.
A proposito del coro, anzi della coralità: se c’è scena del potere in “Edipo a Colono” di Yannis Kokkos, essa sta proprio nel coro che è democrazia e riguarda tutti.