Per due secoli si è tentato di liquidare del tutto le proprietà collettive, quali entità anomale nel diritto moderno. Questo è lo spirito della legge 1766/1927, che fornisce gli strumenti e le modalità di dismissione dei demani comunitari. La direttiva n. 168 del 20 novembre 2017 ha, al contrario, posto un freno all’attività liquidatoria dei comuni e degli enti pubblici, riconoscendo di fatto l’utilità e la modernità delle proprietà collettive. Non sono più fardelli ingombranti di un diritto desueto, ma risorse morali, culturali, ambientali ed economiche per le comunità.
Comunità agrarie
Le proprietà collettive appartengono alla comunità. Sono una ricca risorsa per i nostri Comuni, lasciata alle volte in stato di abbandono o liquidata nella totale indifferenza dei cittadini. In origine, fino alla fine dell’Ottocento, esistevano associazioni agrarie (Università Agrarie nel Lazio o le Regole alpine, per esempio), costituite dagli abitanti di un Comune, che sovrintendevano alla gestione della terra comune, evitando il deterioramento del suolo. A differenza della concezione borghese della proprietà, prettamente individualista, dove è il soggetto (il proprietario) a imporsi sul bene, nel demanio collettivo è la cosa a sopravanzare i soggetti. Si governa un bosco o un prato, ad esempio, in modo tale da conservarne la fertilità per le generazioni future, prelevando solo ciò che serve per la sussistenza della comunità. È insita nelle finalità delle Università Agrarie, delle Partecipanze emiliane, delle Regole Alpine e di tutte le altre comunanze agrarie italiane la tutela ambientale. Fino a quando le proprietà collettive sono soggette alla gestione di questi enti, garantendo uno sfruttamento sostenibile del suolo, la salute della terra è preservata.
Ambiente e demani collettivi
Prima della Legge Galasso (l. 8 agosto 1985, n. 431, art. 1, comma h), la normativa sui demani collettivi (come la l. n. 1102/1971, che istituì le Comunità montane) non aveva riconosciuto appieno la loro utilità per la salvaguardia dell’ambiente. La direttiva 97/1994, recependo l’intuizione della legge 431/1985, espresse pienamente le finalità ambientaliste delle comunanze agrarie soprattutto nelle aree montane, maggiormente interessate dalle proprietà collettive. Queste norme confluirono nel Dlgs 42/2004, il noto e attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio, nell’articolo 142, comma h, dove si vincolano “le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”.
Un atto ufficiale
La legge n. 168 del 20 novembre 2017 ha finalmente sancito che le proprietà collettive sono importanti risorse ambientali, economiche e culturali. Per secoli sui demani comunitari si addensarono valori e sistemi produttivi e sociali da preservare, perché sono l’espressione delle singolarità di ogni territorio. Richiamando nel primo articolo il secondo della Costituzione, la direttiva inserisce le proprietà collettive tra i diritti fondamentali dell’uomo e obbliga la Repubblica italiana a tutelare il demanio comune in tutti suoi aspetti produttivi, morali e ambientali (art. 2).