La scena più bella di “Loro1” è la carrellata sulla pecora. Sul prato elegante della villa in Sardegna di Silvio Berlusconi una pecora si muove lenta e desolata, varca appena la soglia di una lussuoso living, guarda un quiz, stramazza assiderata. A voler essere maliziosi,mettere una pecora come scena iniziale di un film su Berlusconi fa metafora scoperta, scollacciata per essere precisi. A proposito di scollature: Paolo Sorrentino ha scritto un film pettoruto. Non solo tettine (necessita Il diminutivo) al vento e a iosa -insieme a pubi rasati, glutei piccoli e nasi a ventosa su troppe (l’aggettivo urge) piste di cocaina- mettono alla prova la pazienza dello spettatore, cui viene negata persino l’estetica dell’ormone voluttuoso, ma è l’intento a gonfiarsi il petto. Sorrentino, pur cercando di mettere le mani avanti con la citazione di Giorgio Manganelli “Tutto documentato. Tutto arbitrario ”, ha l’ambizione di raccontare il sottobosco berlusconiano, per spiegare il marcio generato dall’uomo che più di tutti ha cambiato il costume, il linguaggio, la mentalità dell’Italia. Ma l’angolo di ripresa è moralistico e parziale. Quindi, anacronistico. Che il Cavaliere, qui colto nel periodo successivo alla sconfitta elettorale del 2006, sia un uomo godereccio, incline a farsi beffa delle leggi, narcisista patologico, sospettabile di tutti i sospetti non è solo narrazione: lo diventa se si continua a salire sul pulpito del correct. Politically correct, socially correct, morally correct: retaggi di una visione sinistroide(?) ormai fuori dal tempo, oltre che della realtà. Il problema di Sorrentino è proprio in quell’esergo, cui il film ha tolto l’ironia mentre se ne appropriava. L’arbitrio dell’invenzione artistica è diventato documento, come sembra spiegare l’unico dialogo da salvare del film: Silvio spiega al nipote di non aver pestato realmente una cacca ma che la cacca è venuta sotto il suo piede. Fare scempio del “corpo del capo” quando il capo è ancora vivo può sortire l’effetto di provocare pietà e ritorcersi contro. Come in questo caso, in cui approfittatori, magnaccia in auto blu, patetici ministri, loschi faccendieri, donnette scafate o finte ingenue sembrano tutti carnefici del carnefice. Addirittura Lui in mezzo a Loro, o nella distanza da Loro (nel binocolo e nella cinepresa), risulta quasi simpatico. Nonostante Toni Servillo che, prigioniero della stessa interpretazione da Sorrentino a Roberto Andò, rimane in bilico tra la naturalità della sua maschera d’attore e lo sforzo quasi cacofonico del milanese sbracato attribuito a Berlusconi.
Lui, Loro, Dio: la stessa onomastica pesa come un sovra-testo inefficace a denunciare la mostruosa consistenza del “tema del potere, una delle tentazioni più forti del genere umano”, come Sorrentino stesso disse in un’intervista, annunciando il film. Berlusconi non è entità pro-nominale, né lo è la sua corte dei miracoli, o tantomeno è eterodiretto da una divinità dall’eiaculazione precoce. A proposito di bruciare i tempi. Sorrentino dispone di un cast importante ma i personaggi precipitano velocemente verso l’inconsistenza come Fabrizio Bentivoglio nei panni di un Sandro Bondi infine noioso, Riccardo Scamarcio oleografico nel ruolo di Giampaolo Tarantini, o l’ovvietà della scelta di Elena Sofia Ricci per interpretare una svanita Veronica Lario. Splendida è solo Kasia Smutniak; un cameo è la faccia di Ugo Pagliai prestata al ricordo di Mike Bongiorno. Di questo film stentato nelle battute e tronfio nel tema resta il tocco magistrale di Sorrentino per certe vezzose soluzioni di regia cui ci ha abituato con “The young Pope” o “La giovinezza”. Simboli che irrompono nella scena con potenza evocativa dalla pecora al ratto al rinoceronte, rifiuti che fellinianamente volano e si trasformano in pasticche emoticon, le panoramiche sulle orge danzanti di corpi e degrado morale. Morale, appunto. Un film moralista. Ed è solo la prima parte.