
Ripubblichiamo da L’intraprendente l’intervista di Gianluca Veneziani ad Antonio Belpiede, condannato per la morte di Sergio Ramelli nel 1975
«Più caro agli dèi è chi prima se ne va/ Il tuo sorriso è fermo lì, è una pugnalata dritta al petto/ Per chi quel giorno ti aggredì/ Per chi quel giorno sparì: maledetti dagli dèi e da tutta questa gente/ Le nuvole del cielo sono i sogni di chi fu/ parabole divine della migliore gioventù». Sono i versi commoventi che il cantautore Skoll dedicò a Sergio Ramelli, il diciottenne militante del Fronte della Gioventù, morto esattamente 40 anni fa a Milano, dopo un’agonia di 48 giorni, per essere stato selvaggiamente picchiato con delle chiavi inglesi da un manipolo di studenti di Medicina, facenti capo al servizio d’ordine di Avanguardia operaia. Oggi coloro che sono stati ritenuti responsabili di quel vile attacco (tra esecutori materiali e “pali”) hanno pagato il loro conto con la giustizia, con pene dai 6 ai 15 anni, sebbene spesso condonate per «la loro condizione sociale» e «la loro ridotta pericolosità». Tra costoro vi è il dottor Antonio Belpiede, ex militante di Avanguardia operaia e oggi primario di Ginecologia presso l’ospedale di Barletta in Puglia, condannato in via definitiva a 7 anni per «correità», che da sempre tuttavia si proclama «innocente» ed «estraneo ai fatti».
Belpiede, ci aiuta a ricostruire le circostanze che hanno portato al suo coinvolgimento nella vicenda giudiziaria legata alla morte di Ramelli?
«Io, come ebbi già modo di dire a processo, non c’entravo assolutamente niente con quella storia. La mattina del pestaggio (il 13 marzo 1975, ndr) ero nel mio paese in Puglia, a Cerignola. Ma, a distanza di dieci anni dai fatti, emersero testimonianze sul mio coinvolgimento, in seguito alle dichiarazioni di tre pentiti. Così fui portato a processo per aver partecipato da “palo” alla spedizione punitiva contro Ramelli e condannato a sette anni di carcere».
Crede di aver pagato ingiustamente quello che altri invece non hanno scontato?
«Di sicuro, io ero ancora in carcere mentre gli altri, i veri responsabili della morte di Ramelli, tra preparatori, pali ed esecutori materiali, erano già fuori. Alcuni di questi poi (Castelli, Montinari, Colosio, Scazza e Cavallari, ndr) spedirono dodici anni dopo una lettera alla mamma di Ramelli, Anita, chiedendo perdono. Ma sono sicuro che non lo avrebbero mai fatto, se non fossero stati individuati e arrestati con l’accusa di aver partecipato all’omicidio di Sergio».
Lei invece ha mai provato a contattare la signora Anita?
«No, perché avrebbe significato aggiungere dolore ad altro dolore. Né ho mai portato un fiore sulla tomba di Sergio. Però lo ricordo spesso nelle mie preghiere, quando penso ai miei cari scomparsi».
Quanto alla sua militanza, si è mai pentito di aver aderito ad Avanguardia operaia?
«Sa, eravamo ragazzi che volevano cambiare il mondo, giovani che sognavano un mondo migliore. Ci lasciavamo sedurre da tanti cattivi maestri, dirigenti dei movimenti della sinistra extraparlamentare, che lanciavano il sasso e poi, a fatti avvenuti, ritiravano la mano. Molti di loro, testimoniando al processo Ramelli, fecero finta di non c’entrare niente: gli organizzatori dell’assalto sparirono e non si conobbero mai i veri mandanti della spedizione punitiva».
Crede che ci siano state delle responsabilità anche in chi tollerava “i compagni che sbagliavano”?
«I compagni che sbagliavano erano, per definizione, i terroristi. L’assalto a Ramelli si collocava invece sul limite tra politica e terrorismo: non fu un omicidio volontario, ma un omicidio preterintenzionale aggravato. Chi colpì Sergio non si rendeva conto che poteva anche uccidere».
Vennero usate delle chiavi inglesi, però, per colpire intenzionalmente Ramelli sulla testa.
«Sì, ma quella doveva essere una “lezione”, non un assassinio. In quel periodo poi a Milano era in corso uno scontro civile, una situazione terribile, in cui quelli di destra non potevano transitare nei luoghi frequentati dalla sinistra, e viceversa. Eravamo figli di una crisi sociale, manifestatasi con il ’68, a cui avevamo deciso di trovare delle soluzioni, spesso inappropriate».
Lei, ad esempio, faceva parte del servizio d’ordine di Avanguardia operaia. Qual era il suo ruolo?
«Difendere i cortei dei nostri militanti, nei contatti con le forze dell’ordine o con i giovani di destra. Ma non ero un picchiatore. Anche quelli che hanno ucciso Ramelli non erano dei picchiatori, piuttosto non sapevano maneggiare bene “gli strumenti”, li utilizzavano in maniera sbagliata, colpivano in testa anziché picchiare alle gambe, non erano avvezzi a un certo tipo di lezioni…».
Questo non vorrà dire certo assolverli…
«No, sto solo sottolineando la contraddizione tra la violenza dell’agguato e la personalità di coloro che lo hanno eseguito. Molti degli assalitori di Ramelli erano persone miti, studenti di Medicina, che poi hanno trascorso tutta la carriera a salvare vite umane».
Ottenendo un successo professionale che in tanti contestano. Claudio Scazza ad esempio, che faceva il palo durante l’agguato, da gennaio di quest’anno è stato promosso a primario nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano. E Giuseppe Ferrari Bravo, esecutore materiale del pestaggio, è diventato un giornalista di Liberazione.
«Probabilmente sono persone che hanno lavorato tutta una vita e sono riuscite a ricominciare, dopo aver scontato il loro debito con la giustizia. Quanto a me, spero di aver fatto nel mio mestiere qualcosa di buono: ogni volta che aiuto una donna a mettere al mondo una vita, provo a ritrovare quell’equilibrio distrutto dai fatti in cui, mio malgrado, sono rimasto coinvolto».
A Sergio Ramelli intende invece rivolgere un pensiero?
«Voglio esprimere il mio dolore e il mio rispetto per quel ragazzo, che è stato meno fortunato di noi; e ha scontato sulla sua pelle la violenza delle ideologie degli anni ’70, che ha creato drammi sia in chi la compieva che in chi la subiva».