Negli anni ’50, quando ero bambino, le nostre mamme non lavoravano fuori di casa e facevano le torte. Erano dolci spesso semplici, con cioccolato, marmellata e con base il pan di Spagna, i nostri e credo quelli delle serie televisive della ‘TV dei Ragazzi’ delle18 e pure dei film, commediole americane senza molte pretese che arrivavano al vicino cinema dei salesiani; tagliate da spietate forbici pretesche, come in “Cinema Paradiso”, tutte le scene o allusioni vagamente erotiche!
Quei film ci facevano sognare con un mondo prospero di grandi auto, spaziose residenze con giardino, televisione a colori, enormi scatole di pop corn, gelati, hamburger e patatine fritte a volontà, feste di compleanno con abbondanza di palloncini colorati e persino con fuochi artificiali! Il sognato way of life dei vincitori del Conflitto Mondiale, riassunto affinché gli impoveriti popoli europei, ancora con macerie alla vista, apprendessero a scegliere meglio i loro governanti ed assimilassero tutti, vincitori e vinti, i valori, i nuovi codici che la grande Nazione dell’aquila con la testa bianca, Hollywood e cento differenti Chiese, in fondo tutte uguali, si preoccupavano di diffondere al mondo…
Quando le mamme, degli Stati Uniti o d’Italia facevano le torte, esse allevavano i figli e curavano da vicino la loro educazione, si sforzavano, giorno dopo giorno, d’insegnare loro comportamenti corretti e maturi, anche se piccoli, coccolavano e perdonavano, ma sapevano anche castigare; erano come radici di nuovi alberi, solidi vincoli per le nuove generazioni. Trasmettevano modi e certezze, si sedevano accanto per fare i compiti, erano autentiche creatrici di cittadini, non vivevano il momento fosse come fosse, improvvisando, mischiandosi con attitudini, sentimenti infantili o adolescenziali. Quando le mamme facevano le torte, e contemporaneamente tramandavano i valori della propria cultura meglio di tanti sussiegosi docenti universitari, un bambino di Torino (allora la Detroit d’Italia), riconosceva tutte le auto ancor prima d’imparare a leggere e sognava una roulotte, magari di brillante alluminio come quelle americane dei film, per racchiudervi il suo mondo immaginario; farne la fortezza invincibile che avrebbe custodito e protetto i suoi progetti temerari, i segreti, le aspirazioni esagerate. E con la quale uscire, correre, andare per ogni dove senza limiti, tuffarsi nell’eccitante complessità di luoghi esotici, esplorare una quotidianità sempre cangiante, le meraviglie di metropoli, cime innevate all’orizzonte, spiagge, deserti, mari, caverne magiche, i boschi delle favole. Come Alice nel Paese delle meraviglie egli avrebbe incontrato il Coniglio Bianco, il Gatto di Cheshire, la Lepre Marzolina, il Cappellaio Matto, la Falsa Tartaruga, la Regina di cuori…insomma avrebbe girato per tutto il mondo, senza fretta, in lungo ed in largo, scoprendo tesori.
Quando le mamme facevano le torte, le automobili erano grandi negli Stati Uniti e piccole in Italia ed in Europa. La mia passione per le roulottes nasceva vedendole transitare lungo la Via Aurelia, in Liguria, con coppie di tedeschi, in prevalenza, o del Nord Europa o francesi. Per lo più non erano famiglie con bambini, ma persone adulte, a volte anziani già in pensione alla ricerca di lunghe (ed economiche) vacanze estive al sole del Mediterraneo. Logicamente le auto erano piccole, anche per carenza d’acciaio. Le roulottes europee erano costruite a misura delle nostre auto, strade e vie con molte montagne e troppa storia.Assomigliavano vagamente, come parenti poveri, alle travel trailers Airstream in sfavillante alluminio, New Moon, Spartan, degli americani vincitori.
I già orgogliosi germanici si accontentavano di aver salvato a stento la pellacia, comprimendo la loro gran voglia di lavorare e guardare al futuro in modeste DKW Auto Union 1000 – con rumorosi motori a due tempi, con tre cilindri o nelle NSU Prinz, povere imitazioni – nelle ultime versioni degli anni Sessanta – della Chevrolet Corvair, nelle Käfer, il maggiolino Volkswagen (nel 1938 era denominato KdF-Wagen, Kraft durch Freude Wagen, l’ “auto della forza attraverso l’allegria”, ma erano tempi passati…), nelle Ford Taunus, nell’Opel Olympia con la faccia modernizzata, in alcune Borgward Hansa 1500, nel pulmino Volkswagen Kombiwagen, mosso da un lillipuziano motore posteriore 4 cilindri boxer, di appena 25 CV, raffreddato ad aria, con capacità per raggiungere una velocità di 80 km/h! Destinato a convertirsi, decenni più tardi, in una Cult Car. Senza dimenticare gli strani microveicoli BMW Isetta o Messerschmitt KR. Assai pochi potevano concedersi una Mercedes-Benz 170 D. La guerra perduta aveva lasciato le fabbriche distrutte e divorato quasi totalmente il parco auto tedesco, non solo le poderose Maybach, Horch, Mercedes-Benz ad 8 cilindri.
Noi italiani vivevamo in appartamenti modesti e la maggioranza dei francesi non molto meglio. La vasca da bagno e l’acqua calda del boiler (che si accendeva normalmente una o due volte per settimana) erano ancora dei lussi. Chi dei transalpini poteva permetterselo aveva una Citroën 2CV – la Traction Avant e più tardi la strabiliante DS, il celebre “ferro da stiro”, disegnate dal connazionale Flaminio Bertoni erano solo per le famiglie facoltose – che sembrava una latta atterrata (male) su di un telaio o la ancor più sgraziata Renault 4CV con motore posteriore o, successivamente, la sobria Simca Aronde e la Renault Dauphine. Lontano permaneva il ricordo delle Delage, Delahaye, Bugatti, Voisin, Peugeot 601, delle lussuose Renault Nervastella e Vivastella.
La maggioranza degli inglesi (ed altri britannici), teorici vincitori della II Guerra Mondiale, la sfangava ancora con la “tessera di razionamento” – che per alcuni articoli era altresì vigente in Italia quando io nacqui all’inizio del 1949 (la maledetta tessera annonaria, la definivano gli adulti) – in strette, fredde, semi-detached houses costruite sin dall’epoca vittoriana per la working class, con lunghe scale ripide, unicamente ottime per fantasticare con giochi di ruolo erotici o fantasie fetish. E guidando auto uscite da… cartoni animati! Le mastodontiche Rolls, Bentley, Daimler, Austin Princess, erano per molto pochi, ma tali residuali privilegi di casta non sembravano turbare più di tanto i sudditi di Sua Graziosa Maestà, ancora superbi dei resti di fasti passati, in alto ed in basso nella scala sociale.
Anche noi italiani avevamo “truccato” (restyling era una parola che nessuno conosceva) i nostri modelli d’anteguerra: specialmente le Fiat 500 Topolino (Walt Disney e Mickey Mouse erano popolari nell’Italia fascista) e 1100, rimpannucciate imitando approssimativamente alcuni stilemi yankee, le Lancia Ardea ed Aprilia. Campionessa delle auto incomode e claustrofobiche, la Topolino fu lanciata al mercato nel 1936, su pressione di Benito Mussolini, che voleva un’auto popolare. Nell’Italia del 1936 circolavano solamente 222,000 automezzi (di ogni tipo, compresi quelli pubblici e militari) per 42 milioni di abitanti. All’incirca, un veicolo ogni 200 persone. Un rapporto dieci volte inferiore a quello della Francia e quaranta volte inferiore a quello degli Stati Uniti nello stesso anno.
La versione 500 C aveva i fanali anteriori incastrati nei parafanghi, un frontale con griglia orizzontale, senza ruota di scorta alla vista, al fine di conferirle un aspetto moderno. Oltre alla minuscola berlina, apparsa nel 1949, con due porte (ed immaginosi 4 posti), la Fiat fabbricò la “Giardiniera di legno”, che nel 1951 abbandonò il legno per una carrozzeria tutta di lamiera, la “Belvedere metallica”, che neppure imitava il colore del legno! Gli italiani del tempo, reduci dall’immane conflitto, erano pratici, essenziali e non amavano i fronzoli e di surrogati ne avevano sorbiti, sopportati anche troppi. Erano, la 500 “Giardiniera” e la “Belvedere”, le auto di tre o quattro miei zii. Una gran novità.
Lo zio Annibale, ufficiale della Regia Marina, compromesso con la R.S.I. – con un fratello Generale dell’Esercito, già Capo Gabinetto del Quadrumviro De Vecchi, Governatore delle Isole Italiane dell’Egeo – era diventato rappresentante di un’impresa di cartucce per fucili da caccia. Cartucce orgogliosamente pitturate sulle fiancate della 500 B furgoncino, a due posti, ch’egli guidava senza una grande perizia, suonando il clacson ben più del necessario! Era un’epoca nella quale le doppiette erano in attività durante molti mesi all’anno, con un elastico rispetto della legge e non tanto a causa della passione per il nobile sport venatorio, ma per…riempire la casseruola! I colombi non erano certo un problema per le nostre città come oggi. Durante i lunghi anni di guerra, la fame aveva scatenato spietate cacce di ogni volatile e di gatti, anche senza fucili o con un Flobert ad aria compressa.
La caravan Airstream, in particolare, si era convertita in uno dei sogni della famiglia americana in quegli anni ’50 e ’60. Era l’epoca ottimistica delle imponenti freeways, costruite durante la Presidenza di Eisenhower per quegli spazi quasi infiniti, coniugando senso dell’avventura, entusiasmi giovanili, benessere economico, la cultura beat di “On the Road” di Jack Kerouac, del dinamismo, del movimento continuo e degli interessi delle potenti Corporations di Detroit, General Motors, Ford, Chrysler. Il “Sistema Nazionale di Autostrade Interstatali e di Difesa Dwight D. Eisenhower”, chiamato comunemente Interstate Highway System, fu inaugurato nel 1956. Il Generale Presidente – influenzato dai suoi ricordi di giovane ufficiale attraversando gli Stati Uniti nel 1919 e dalla conoscenza delle magnifiche Autobahnen tedesche durante la Guerra – vide nelle autostrade un necessario componente del sistema di difesa nazionale. Esse all’occorrenza avrebbero reso possibile un rapido spostamento per terra di truppe, munizioni e materiali militari.
Un giorno, alla fine degli ‘infami’ anni Settanta, io presi un aereo, poi un altro, per Montevideo, prima tappa, prolungata, di una vita alquanto errabonda, chiaro senza roulotte, con una Fiat 131 Mirafiori che prendeva la ruggine già sul depliant, anche per la feroce riduzione dei costi di produzione a metà degli anni ‘70… Scoprii nelle sue vie, carrozzabili, garages, tante vecchie auto, classiche, vintage o semplicente jurassiche, tali da smarrire la ragione, como Orlando, il cui senno perduto Astolfo fu a recuperare sulla Luna, a cavallo dell’ippogrifo, scrisse l’Ariosto.
In quegli anni la Capitale della República Oriental del Uruguay ancora pullulava di auto d’epoca, poche da collezione, essendo la maggioranza usate come veicoli di uso quotidiano. Abbondavano le americane del Trenta (e non poche Ford T del Venti, soprattutto in campagna, dove per i cammini fangosi erano ottime le sospensioni alte), “cachilas” come erano definite: Ford A in gran copia, con ogni tipo di carrozzeria, aperta o chiusa, Chevrolet, Chrysler, Hudson, De Soto, Dodge, Plymouth, Studebaker, Nash, Hupmobile, Chandler, Graham-Paige, Whippet Overland, Kaiser, Frazer, Franklin, Marmon e decine di altre marche. In ogni stato di mantenimento. Scassate spesso, riparate cento volte da meccanici abili e fantasiosi che trovavano, se non il ricambio originale, almeno un decente surrogato per tirare a campare ancora un po’. Poche le vetture europee d’anteguerra, Citroën e Fiat, 509, 514, 520. Scarse pure le automobili statunitensi degli anni ’50 e ’60, troppo grandi e vistose per il tradizionale low profile degli Orientales.
Cominciai cercando una american woody in decenti condizioni, con motore, cambio, sospensioni originali, dell’epoca della mia nascita, fine ’40, inizio ’50, una Buick, o Pontiac, o De Soto o Dodge.
Non era per nulla facile. Algune erano state effettivamente importate da diplomatici dello Zio Sam, mi commentarono. Ebbi fortuna ed alla fine qualcosa trovai. Un italiano residente mi avvisò che in un capannone di Pasos de los Toros, una località del Dipartimento di Tacuarembó, 250 km. al nord di Montevideo, in un deposito polveroso e disordinato, dormiva lunghi sonni una piccola Morris Minor, Traveller Estate del 1963, inglese. Non era ciò che stavo cercando, ma mi sedusse da subito, quando mi aprii il passo tra ragnatele e carabattole d’ogni sorta. Dandomi l’energia per affrontare un lungo restauro costellato d’incavolature e dolori di testa. Pensavo di farla verniciare con i colori cioccolato e crema delle torte della mamma. Ma poi scelsi, credo assennatamente, di conservare il classico british green…
Prese le mosse da ricordi personali, tento ora di scoprire e ricostruire, per sommi capi, che cosa fu e rappresentò la “familiare” nel variegato mondo della storia dell’auto, specialmente quella di legno o con una decisa presenza di legno nella carrozzeria.
‘La familiare, anche chiamata giardinetta (in inglese station wagon o estate car, estate wagon e in francese familiale o break), è un tipo di carrozzeria d’autovettura, generalmente derivata da un corrispondente modello berlina, da cui riprende la parte anteriore e centrale del corpo vettura, mentre la parte posteriore è più lunga e aumentata in volume, unendo il baule con l’abitacolo, in modo da creare maggior spazio a disposizione per caricare bagagli, merci o altro. L’automobile di tipo familiare nacque in Italia nel secondo dopoguerra, quando nell’opificio torinese di Vittorino Viotti venne dato corpo alla “carrozzeria funzionale” ideata da Mario Revelli, su autotelaio Fiat 1100. Durante il conflitto, Revelli aveva prestato la propria opera di designer presso diverse carrozzerie collegate a FIAT e Lancia, con l’incarico di trovare soluzioni razionali per trasformare le automobili di normale produzione in mezzi militari, con particolare riguardo alle autoambulanze. Fu in quegli anni che Revelli pensò ad applicare quelle soluzioni sulle automobili civili, in quanto avrebbero favorito l’utilizzo anche promiscuo del veicolo’.
La Fiat 1100 Viotti Giardinetta, disegnata da Revelli di Beaumont, venne presentata nel 1946, subito replicata da Fissore e dalla stessa FIAT che, due anni più tardi, mise in vendita la “Topolino Giardiniera”, ancora figlia dell’abile progettista Dante Giacosa, il creatore della “Topolino” con Antonio Fessia. Di famiglia cuneese, Giacosa nacque a Roma, nel 1905, dove il padre Costantino, maresciallo dei Carabinieri, prestava servizio. Attese agli studi classici, che lasciarono un’impronta netta nel suo stile; conoscere la lingua latina e la greca gli diede “un senso di misura ed equilibrio senza il quale non avrei potuto svolgere il mio lavoro” affermò.
‘Nella primavera del 1948 fu presentata la “500 B”, esteticamente simile alla precedente, ma con sostanziali modifiche tecniche. Il motore presenta una nuova testata in alluminio con valvole in testa comandate da aste e bilancieri e aumentato nella potenza a 16,5 CV, che consente una velocità massima di 95 km/h e consumi inferiori. Fortemente rivista anche la parte telaistica con molte piccole migliorie e con l’adozione della barra trasversale stabilizzatrice posteriore e degli ammortizzatori idraulici telescopici sulle quattro ruote. Il comfort invernale risultò migliorato dall’adozione dell’impianto di riscaldamento, su richiesta. La novità più importante fu l’introduzione della versione “Giardiniera Belvedere” che proponeva una piccola familiare con quattro posti ed un portellone posteriore, il quale dava accesso al considerevole vano di carico, aumentabile tramite il ribaltamento in avanti dello schienale posteriore’.
La nuova versione, che riproduce in piccolo la “carrozzeria funzionale”, con ampia vetratura, ideata nel 1946 dal conte Mario Revelli di Beaumont per la Fiat 1100, e realizzata dalla Viotti, è caratterizzata da fiancate con listelli di frassino e masonite, chiaramente seguendo lo stile delle woodies d’Oltreoceano. Mario Revelli può essere considerato uno dei padri fondatori del design automobilistico italiano. Il suo nome non è oggi tra i più noti, ma la sua genialità (il bloccaggio centralizzato delle porte è una delle sue tante idee, insieme ad alcuni progetti innovativi di monovolume realizzate negli anni Trenta) hanno lasciato un profondo segno nel mondo delle quattro ruote. Idee talora tratte dalle ambulanze militari disegnate durante il conflitto. Sua la Lancia Aurelia B53, “Giardinetta” costruita da Viotti, nel 1952, esempio di opulenta, ma sobria, eleganza ed equilibrio.
‘La “Giardiniera Belvedere” è la prima automobile al mondo di tipo station wagon, costruita in grande serie. Il termine originale “Giardinetta” non si poteva utilizzare perché depositato dalla Carrozzeria Viotti e si optò per il termine “Giardiniera” che oltre ad avere assonanza con la fuoriserie di Viotti, riprendeva l’omonima denominazione dei carri sui quali gli ortolani trasportavano ai mercati i loro prodotti, ancora in largo uso nella prima metà del Novecento. La “500 B” rimase in produzione per poco più di un anno, con oltre 21,000 esemplari costruiti. Prodotta a partire dal 1949, la “500 C” rappresenta il 100º modello di autovettura costruito dalla FIAT. La versione “Berlina trasformabile” divenne di serie. Nel 1951 la “Giardiniera Legno” vide l’abbandono delle fiancate in legno e faesite, abilmente costruite a mano dalla Sezione Carrozzerie Speciali di Mirafiori, in favore della “Belvedere”, con nuovi lamierati metallici realizzati mediante stampaggio. L’innovazione portava vantaggi dal punto di vista pratico e le vendite aumentarono considerevolmente. La produzione della “Topolino Berlina” cessò nel 1954, lasciando il posto alla Fiat 600, mentre quella della “Belvedere”, ancora molto apprezzata, si protrasse per tutto il 1955’.
Questo tipo di vettura ebbe, al di là della “Belvedere”, inizialmente un’accoglienza tiepida da parte del pubblico, anche in ragione della somiglianza estetica con l’autoambulanza, dalla quale era scaturita, e con… il carro funebre! Ebbero successo solo le utilitarie familiari che, per le loro dimensioni ridotte, non richiamavano tali tipologie. Tuttavia, superati in parte gli ostacoli e pregiudizi scaramantici, la
carrozzeria verrà adottata da quasi tutte le Case automobilistiche e conoscerà, nei decenni successivi, un buon successo di vendite, anche per il diffondersi della consuetudine del cane domestico d’appartamento, la mascotte che ti accompagna (quasi) ovunque! In Italia ci fu, per la verità, il precedente dell’Artena, IV serie, carrozzata Stabilimenti Farina di Torino, nel 1940. Sempre che la carrozzeria non sia stata realizzata successivamente…
Antesignani i ‘soliti americani’, era una moda con scarso background. Negli anni ’20 e ’30 parte della nuova carrozzeria lignea serviva anche per riciclare artigianalmente buoni telai con carrozzerie danneggiate, da parte di abili carpentieri più che di carrozzieri. Le station wagon venivano per lo più destinate ad usi commerciali, per trasportare carichi limitati, per la distribuzione di mercanzie ai dettaglianti ecc. Una modesta Ford o Plymouth od una opulenta Packard. Razionalismo e gusto retrò, un po’ style fiacre adattato ai tempi nuovi. Durante un breve periodo (1946-1953), fu un fenomeno essenzialmente statunitense, da noi, francesi, inglesi, imitato. La woody si convertì per alcuni anni, in Europa, nell’auto del venditore del mercato ortofrutticolo, del rappresentante di commercio e, contemporaneamente, del gentleman di campagna (o aspirante tale).
Il massimo dell’utilitarismo (esemplare la citata “carrozzeria funzionale” di Mario Revelli) ed insieme tendenza o capriccio di tempi alquanto contraddittori nel design automobilistico, perchè quella stagione era stata preceduta dal furore per le linee aerodinamiche e filanti, il Cx studiato nelle ‘gallerie del vento’, la Chrysler Airstream, le linee esasperate di Jean Bugatti ed imitatori. Col tempo, la carrozzeria con legno in evidenza s’inserì, comunque, più armoniosamente nelle linee metalliche del corpo della vettura. Da sovrastruttura improvvisata divenne, in certo modo, parte integrante della struttura, acquisì forme tondeggianti, curve aggraziate e sinuose.
La Francis Lombardi è stata una carrozzeria automobilistica italiana, fondata nel 1947 a Vercelli, dal pilota Carlo ‘Francis’ Lombardi. Una carrozzeria presto divenuta famosa per le sue interpretazioni. Le prime creazioni di Francis Lombardi consistevano nella realizzazione di giardinette con carrozzerie finite in legno; base preferita la Lancia Aprilia, vero orgoglio italiano, la cui produzione era ripresa dopo il ’45. Una è diventata famosa. Ordinata dal senese marchese Niccolò Antinori, della importante famiglia produttrice del Chianti Classico sin dal 1385. Riscoperta nel 2004 da appassionati lancisti è stata accuratamente restaurata, quindi venduta all’asta a Bruxelles, ed oggi il suo valore si avvicina, o supera, i 140,000 Euro.
L’auto potrebbe sembrare non perfettamente proporzionata, un po’ troppo alta ed over-bodied, come si dice in inglese. Trattasi, in ogni caso, di un esemplare unico, dove la volontà dell’acquirente veniva normalmente prima del gusto dei disegnatori. Questa Aprilia 1948 “Saloncino” o “Giardiniera” è, in ogni caso, splendidamente moderna e luminosa, con vetratura abbondante; il blu scuro della carrozzeria si combina egregiamente con le cromature ed il legno pregiato, creando un’armonica unità acciaio-legno.
Disegno di Mario Revelli, come da alcuni ipotizzato? Non direi…
Le prime station wagons erano rustiche, senza vetri (con tendine di tela e celluloide trasparente, come nelle roadsters) e con panche al posto dei sedili. Nel 1922 la Essex Motor Company di Detroit, poi assorbita dalla Hudson e presente come marchio sino al 1933, introdusse la prima auto chiusa di serie (una berlina grande o Sedan, non un Coupé de Ville o Town Car), che ebbe un notevole successo. Le presse dell’epoca non potevano, comunque, stampare a freddo ampie superfici. E molte operazioni di sagomatura venivano ancora svolte, con grande perizia, dai battilastra. Per questo ogni carrozzeria chiusa necessitava di un singolo telaio di legno, poi ricoperto dalle lamiere della carrozzeria esterna. Ed il tetto era di tela spessa, impermeabile, fissata alla struttura lignea, con rete di maglie di ferro, del tetto. Quasi sempre il montaggio veniva affidato dalle Companies a carrozzerie esterne, come nel caso di Briggs e di Murray di Detroit, di Mitchell Bentley, Hercules, USB&F, Cantrell ecc. per non appesantire le proprie linee di montaggio. Lo stesso tipo di copertura venne usata per le prime woodies.
Già nel 1919 la Stoughton Wagon Co., Wisconsin, aveva creato una carrozzeria di legno per il telaio della Ford T. Nel 1923 la Star (una marca della Durant Motors) divenne la prima Casa automobilistica a porre in vendita una giardinetta assemblata nelle sue linee di produzione.
Pochi anni dopo la Ford si convertì nella maggior venditrice di station wagons. Nel 1929, infatti, Edsel Ford, figlio unico di Henry, che desiderava un veicolo per le vacanze estive nel Maine, incaricò Murray di apprestargliene una (riprodotta nella foto) utilizzando pregiato legno d’acero e compensato di betulla, per i pannelli laterali, provenienti dalla foresta di famiglia di Iron Mountain, Michigan. La realizzazione gli piacque tanto che decise d’inserirla nel listino. Circa 5,000 Ford A Woody Station Wagon, per 8 passeggeri, furono prodotte tra il 1929 ed il 1931, ad un prezzo più che doppio rispetto ai modelli più economici (una Tudor sedan costava allora circa 500 dollari).
In quello stesso 1929, J. T. Cantrell & Brother iniziò a fornire le carrozzerie di legno alla Chrysler, fino al 1931. Finalmente, le grandi Compagnie iniziarono a produrre le proprie wagons. A metà degli anni Trenta, le wood-bodied station wagons avevano conquistato un prestigio un po’ snobistico. I loro prezzi di vendita erano parecchio superiori a quelli delle auto “normali” e soprattutto diffuse presso le comunità più danarose. Quando fu introdotta nel 1941, la Chrysler Town & Country era il modello più caro di tutto il Gruppo (che includeva Dodge, De Soto, Plymouth).
Le woodie wagons necessitavano, inoltre, di un mantenimento costante ed accurato. Le carrozzerie erano terminate con lacche che dovevano essere rinnovate con frequenza; bulloni e viti richiedevano periodici aggiustamenti a causa dell’espansione e contrazione stagionale dei legni. Il clima molto secco od umido era ugualmente dannoso. Nel 1935 la General Motors introdusse una carrozzeria d’acciaio per la Suburban Wagon, a otto posti, basata su di un piccolo camion Chevrolet. Si trattava in ogni caso, e per tutti i produttori, di una tipologia “di nicchia”. Un veicolo spesso usato per trasportare i passeggeri dalle stazioni ferroviarie agli hotel, nei tanti piccoli centri americani. Proprio da lì sorgerebbe l’etimologia della “station wagon”: vettura per fare lo shuttle tra il centro città e la stazione.
La Ford 21A Super Deluxe Wagon, Modello 79B, del 1942, 96 CV, motore V-8, tre marce, in legno d’acero zuccherino e pannelli di mogano, ad esempio, era il modello più caro della Ford disponibile quell’anno, a 1,125 dollari. Il numero delle woodies costruite, pur se progressivamente meno rustiche rispetto alla Ford A del 1929, più attraenti esteticamente, rimaneva assai ridotto rispetto alla produzione totale delle varie Case.
La popolarità delle woodies fu rinnovata principalmente dalla surfing culture californiana, durante gli anni ’50 e ‘60. Dopo la fine della II Guerra Mondiale, la produzione automobilistica statunitense aveva ripreso a tutto vapore, con le fogge e le lavorazioni di anni anteriori. I progressi nelle tecniche produttive presto posero in evidenza quanto fosse più pratica ed economica l’opzione per scocche all-steel, eliminando altresì i rumori ed i problemi di mantenimento delle autentiche wood bodies. La prima Compagnia a costruire tutto in acciaio fu, nel 1946, la Willys-Overland Co. con la ‘Jeep Station Wagon’, basata sulla Jeep prodotta durante il Conflitto. Willys offriva un livello di allestimento che richiamava le componenti e finiture lignee, ma attraverso vernici ed altri materiali. Del resto, la “cultura dell’acciaio” era figlia della guerra vinta!
Nel 1949 la Plymouth introdusse la prima vera all-steel station wagon negli USA, la Suburban a due porte. L’anno successivo la Casa si convertì alle carrozzerie interamente d’acciaio. Buick smise la produzione dell’ultima carrozzeria woodie con il modello 1953. Tutte avevano col tempo “perso” legno, sempre più decorativo, a favore dell’acciaio. Alla metà degli anni Cinquanta gli accenni al legno rimanevano piuttosto diffusi, ma falsi. La smisurata, full-size wagon Ford Country Squire del 1950 – la prima generazione della Country Squire era stato l’inizio della fine dell’autentica woodie – conservava vistosi pannelli con venature lignee. Cominciò, cioè, con alcune parti in vero legno che… presto perse per strada! Nel 1955 solo Ford e Mercury avevano in listino un modello woodie, simulando parti in legno con altri materiali, acciaio, plastica e laminato DI-NOC vinilico.
Tuttavia, negli Stati Uniti, non in Italia, la “woodie” conobbe una sorta di seconda giovinezza, ma sempre con venature simulate del legno, un esempio tipico di scheumorfismo, tecnica di progettazione attraverso la quale un ornamento fisico o grafico viene apposto su di un oggetto allo scopo di richiamare le caratteristiche estetiche di un altro. Nel 1966 la Chevrolet Caprice ebbe una versione station wagon rifinita in legno vinilico, la Caprice Estate. Pure Dodge introdusse quell’anno una vettura di legno simulato. Seguirono la Chrysler Town & Country, la Buick Estate, la Mercury Colony Park e, anticipando altre SUV, la Jeep Grand Wagoner, full-sized del 1984. Così come la Chrysler Voyager, monovolume coeva della Renault Espace, della Ford Galaxy, della Fiat Ulysse (senza falso legno, non gradito da italiani e francesi). La moda parve retrocedere all’inizio degli anni’90.
Quesito finale banale, ma senza risposta: senza le bizzarre woodie wagons – di quando le mamme facevano le torte – alle quali ho fatto anzi cenno, avremmo mai avuto le nostre attuali familiari e pure i SUV, i crossovers, le monovolume?
* già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay