Mercoledì 21 marzo, il Palazzo delle Esposizioni a Roma è stato il “teatro”, come vedremo per taluni aspetti non è improprio questo sostantivo, della presentazione del XXIII Festival Internazionale del Fumetto, dell’Animazione e dei Games (edizione primavera) – meglio conosciuto come Romics – che si terrà presso la Fiera di Roma dal 5 all’8 aprile.
Non è certo la prima volta che stigmatizziamo come la kermesse sia in sostanza una “fiera”, tutto un pullulare di cosplayer e gamer. Certo, questo evento, poiché trattasi di ciò, è ormai il primo del suo genere in Europa, e questo può far pure piacere, se si considerano l’arte e la cultura quali “volani” per l’economia. Però noi il fumetto e il cinema di animazione li studiamo, quindi tali “primati” non ci entusiasmano più di tanto.
Troppi inglesismi
Assistendo alla presentazione, abbiamo notato due tristi continuità nel modo di vivere questa iniziativa. La prima, è nell’utilizzo eccessivo della terminologia inglese, come se la lingua italiana fosse povera di vocaboli, con l’aggravante di non sentire una singola pronuncia azzeccata. La seconda, forse persino deteriore, è che dentro Romics ci sono cose che non ci dovrebbero essere. Ad esempio, cosa c’entra la Body Art con i fumetti, i cartoni e i videogiochi? Per non parlare poi del “contest” di danza K-pop; che se poi vogliamo dirla tutta, la cultura coreana sta vivendo quella opprimente commercializzazione di stampo prettamente giovanilistico che, anni or sono, aveva investito anche il Giappone, col fenomeno J-pop. Vi garantiamo, da orientalisti, che da quando il Sol Levante si è finalmente sbarazzato proprio del “pop”, beh, è tornato a essere un Paese verso il quale si indirizzano le attenzioni di ricercatori seri, e non dei para-accademici modaioli. Fare tendenza, segnatamente per una Nazione asiatica, è sempre una arma a doppio taglio.
Non è che vogliamo essere dei biechi passatisti, ma, citando una vecchia affermazione di Alessandro Baricco, in uno degli episodi del suo bellissimo spettacolo Totem andato in onda tanti anni fa sulla RAI: “Francamente, noi staremmo qui per un altro motivo”. Nel nostro caso, i fumetti e i cartoni animati… mettiamoci pure i giochi elettronici, e sarebbe stato bello su questi ultimi sentire parlare di videoludismo e gamer, ma sembra che non si voglia mai dire nulla. La simpatia, la quale poi è cosa rischiosa, giacché soggetta al gusto, è nella Italia post(?)-renziana la risposta a tutto. Quasi due ore di conferenza, che in sostanza è stata una lettura spigliata e cordiale del pressbook. Ragion per cui, possiamo in questa sede solo dire che chi ama questo genere di “cose” non darà alcun peso alle nostre considerazioni; meglio così, le “fiere” hanno sempre bisogno di movimento e affluenza. Massimo Rotundo, uno dei tre Romics D’Oro di questa edizione, ha affermato che il fumetto contemporaneo è un medium che vive di “contaminazioni”. Possibile, probabilmente anche vero. Nondimeno, stiamo bene attenti a non far diventare una sana osmosi tra diverse forme artistiche una grande confusione. Comunque sia, gli altri due Romics D’Oro verranno assegnati a Martin Freeman, divo britannico, grande interprete di personaggi amati in tutto il mondo, da Guida Galattica per Autostoppisti al celeberrimo Bilbo Baggins de Lo Hobbit fino ad arrivare a John Watson dell’amatissima serie TV Sherlock e al recentissimo Ghost Stories, e a Tsukasa Hōjō, alla sua prima visita ufficiale in Italia, autore di importanti manga, con altrettante fortunate versioni televisive, quali: Cat’s Eye – Occhi di gatto (キャッツ・アイ, “Kyattsu Ai”, 1981 – 1985) e City Hunter, (シティーハンター, Shitī Hantā, 1985 – 1991), entrambi serializzati sulla testata Weekly Shōnen Jump.
Chiariamo che non è nostra intenzione bacchettare nessuno. Andate e divertitevi, questo è il senso ultimo di questo tipo di evento. Ciononostante, in chiusura vogliamo giustificare questa nostra posizione, che molti considereranno “reazionaria”. Uno dei relatori ha affermato che il suddetto Hōjō è stato il primo a introdurre dei corpi femminili dalle forme occidentali nel fumetto giapponese. Ora, non pretendiamo, visto che non viviamo sulla Luna, che tutti abbiano letto i testi di Frederik L. Schodt (Cfr. Manga! Manga! The World of Japanese Comics, 1983), però almeno ricordarsi di Gō Nagai sì. E da qui nascerebbe la obiezione che non è affatto vero che in questo Hōjō sia stato un apripista. Capite allora che il rischio della confusione esiste? Fare copia e incolla del pressbook, almeno per come la vediamo noi, sarebbe stato poco serio. Se abbiamo scritto un mucchio di trite riflessioni, ci scusiamo e anzi ringraziamo il lettore per la pazienza. Passano i millenni, ma l’essere umano sembra non cambiare; panem et circenses e così sia; chi siamo noi per dire no. Non vogliamo dare “giudizi”, ci limitiamo a fornire una prospettiva, uno sguardo, per dirla con Italo Calvino, che è cosa assai differente.