Ingigantire un problema, una difficoltà, una minaccia a cui si sa di dover far fronte è da sempre un modo ideale per garantirsi preventivamente la possibilità di fare bella figura. Nel caso in cui le cose non finiscano per il verso sperato, consente di invocare le circostanze attenuanti della sproporzione delle forze in campo. Se invece ad arridere è il successo, si può far passare un piccolo sforzo per un’impresa titanica ed abbellirsi ulteriormente l’immagine.
Questa legge elementare della vita e della politica, i cosiddetti partiti populisti avrebbero dovuto impararla e metterla a frutto sin da quando l’imperizia e la corruzione delle classi dirigenti e gli sconquassi sociali e culturali provocati dalla globalizzazione hanno cominciato a gonfiare le loro cifre elettorali. Avrebbero cioè dovuto rendersi conto che la strategia dell’allarme generalizzato dinanzi alla crescita dei loro consensi, che li descriveva come gli inarrestabili barbari ormai giunti alle porte delle nazioni civili, solidali e intrise di buoni sentimenti, pronti a farne un solo boccone e ad imporre un’era di intolleranza e discriminazioni, non era altro che un furbo espediente per attirarli in trappola.
Invece no. Alcuni inattesi esiti dell’annus mirabilis – e per i loro avversari horribilis – 2016 li hanno fatti sprofondare nel delirio di onnipotenza. Li hanno ubriacati. I successi del leave referendario in Gran Bretagna, l’elezione di Trump e la vittoria sfiorata da Norbert Hofer alle presidenziali austriache, uniti al coro di commenti compiaciuti o indignati sull’inevitabile avvento del “momento populista” in giro per il mondo li hanno indotti a strafare. A proclamarsi vincitori in anticipo, a sostituire i festeggiamenti alle analisi, a prendere i sogni per realtà, a moltiplicare i proclami tracotanti. Facendo il gioco di chi era schierato contro di loro e covava vendetta.
Non è parso vero, a costoro, trovare nei detestati denigratori di alcuni principi fondamentali del politicamente corretto degli alleati obiettivi e inconsapevoli nel proprio impegno a far marciare a pieno regime la catena di montaggio di quella imprenditoria della paura del “male assoluto” che era l’unica efficace carta da giocare per invertire la pericolosa tendenza in atto. E il gioco si è rivelato persino più facile del previsto. Mentre infatti la controffensiva mediatica procedeva a ritmo ancor più accelerato, continuando a sfruttare il ricatto della compassione per parare i colpi delle critiche all’immigrazione, ad accusare di razzismo strisciante i richiami al mantenimento delle identità autoctone investite dalla sfida multiculturale e a far passare per nemici dell’Europa quanti vedono nelle istituzioni di Bruxelles i veri affossatori della sovranità del Vecchio continente, gli accusati non hanno trovato di meglio da fare che rilanciare di continuo e alzare la posta, dando per scontati gli imminenti trionfi e minacciando di fare immediata tabula rasa, una volta ascesi al governo, una serie di norme vigenti su alcuni temi sui quali l’opinione pubblica è spaccata verticalmente (euro, pensioni, scenart di politica estera). E i risultati sono venuti di conseguenza.
A dimostrare l’efficacia della strategia allarmistica sono arrivati, in tempi ravvicinati, il sia pur limitato ridimensionamento dei consensi del candidato della Fpö nelle presidenziali-bis austriache, il modesto risultato del campione dell’anti-islamismo Geert Wilders in Olanda, la sconfitta 34,1%-65,9% di Marine Le Pen contro il campione delle élites Macron, infine (per ora) il crollo dal 12,6% all’1,8% dell’Ukip alle legislative dell’8 giugno. Ognuno di questi risultati fa, certo, storia a sé e merita di essere analizzato separatamente, ma nel contempo fa parte di un processo più generale su cui è opportuno soffermarsi.
Per arrivare al quadro complessivo e agli insegnamenti che se ne possono ricavare, occorre partire dai singoli casi.
Il più facile da inquadrare è quello britannico, che illustra alla perfezione uno dei rischi ai quali in ogni fase del proprio sviluppo storico i movimenti populisti sono stati esposto: la concentrazione quasi monotematica su singoli aspetti della crisi sistemica con la quale si confrontano (e alla quale reagiscono), sconnessa da un impianto di riflessione generale sullo scenario dentro cui si colloca la loro azione. Puntare sui disagi e sui dissensi che un particolare fenomeno negativamente percepito provoca in una più o meno ampia fascia di popolazione può alimentare fiammate di consensi, soprattutto quando le forze concorrenti ne trascurano o addirittura ne negano la consistenza; ma basta che alla questione sia data una qualche forma di risposta – ovviamente enfatizzata dal coro massmediale – o che la protesta venga formalmente condivisa da un concorrente insediato nell’area di governo per sgonfiare la bolla dell’indignazione. L’Ukip era nata da una costola del partito conservatore per promuovere una specifica causa, l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, e per un certo tempo i suoi progressi avevano lasciato ad altri attori la possibilità di crescere utilizzando altre tematiche populiste, tanto che il ben più radicale British National Party, allora sospeso fra estrema destra e populismo, era riuscito a far eleggere all’europarlamento due suoi deputati nel 2009. In seguito si era illusa di poter sfruttare in proprio l’intero arco delle tematiche anti-globalizzazione, assorbendo i concorrenti, ma nell’opinione pubblica il suo marchio di fabbrica era rimasto legato alla questione originaria. La Brexit ha liquidato, agli occhi di quasi tutti i sostenitori, la sua utilità, ed è bastato che Theresa May adottasse un atteggiamento hard nei negoziati con la Commissione di Bruxelles per farli convergere sulla presunta erede della “lady di ferro”. Il dimissionario leader del partito Paul Nuttall, presentando le dimissioni dopo la débâcle, si è detto certo che la stella dell’Ukip presto tornerà a brillare. Noi non ne saremmo altrettanto sicuri, almeno sino a quando il partito non si farà portavoce di una contestazione globale di quel sistema di cui l’invadenza dell’euroburocrazia e l’apertura delle frontiere a masse di immigranti non sono che due dei tanti aspetti.
Anche nella versione offertane da Geert Wilders, l’applicazione della mentalità populista all’azione politica ha mostrato i suoi limiti. Il suo Partij voor de Vrijheid – che in realtà è poco più di un movimento d’opinione, volontariamente privo di strutture organizzate territorialmente e legato a filo doppio alla figura e alle decisioni del leader – non si discosta, nel programma, dall’ideologia neoliberista, puntando sul taglio delle tasse, sul ridimensionamento dello Stato sociale e su una riforma restrittiva delle pensioni, si fa vanto di un drastico anti-ambientalismo, che implica il sostegno al nucleare, la riduzione degli incentivi ecologici e l’abolizione della tassa sulle emissioni di diossido di carbonio, e sposa il più avanzato progressismo societario sui temi etici. Ciò che più lo caratterizza in senso populista è il connubio tra una feroce critica alla classe politica e una lotta dai tratti quasi ossessivi alla diffusione della cultura islamica in Olanda (come è noto, ha paragonato il Corano al Mein Kampf, sostenendo la necessità di proibirne la circolazione). Questo oltranzismo lo ha fatto lievitare nei sondaggi d’opinione fino al 30% dopo il succedersi dei più gravi atti terroristici di matrice islamista in Europa, ma non è bastato a convincere molti elettori nel momento in cui si è avvicinato il momento di infilare una scheda nell’urna, arrestandolo al 13,1%, quasi due punti e mezzo sotto il livello raggiunto nel 2010.
Più complesso è il caso francese. Se è vero che Marine Le Pen ha compiuto un exploit senza precedenti, facendo convergere sul suo nome al ballottaggio oltre dieci milioni e mezzo di voti, lo è altrettanto che la sua prestazione è stata, nel complesso, molto deludente, ancor prima della vera e propria catastrofe delle elezioni legislative. In quasi sei anni di presidenza del Front national, i suoi sforzi si sono concentrati sul tentativo di far indossare al partito l’abito di un populismo collocato al di là dello spartiacque sinistra/destra, attento ai disagi dei lavoratori colpiti da delocalizzazioni e manovre finanziarie così come alle preoccupazioni di quanti temono, di fronte all’azione congiunta dei flussi migratori e delle decisioni dell’Unione europea, una perdita di identità e di sovranità nazionale. Tuttavia, in questo indirizzo strategico, l’immagine del partito si è sempre più caricata di toni ultra-patriottici dal sapore non di rado giacobino – con una dichiarata ostilità nei confronti di ogni forma di autonomia locale – e si è via via distanziata dalla preesistente configurazione antisistemica. I problemi posti dall’immigrazione, da sempre cavallo di battaglia lepenista, sono stati ridotti all’obbligo di assimilazione dei nuovi venuti nello “spirito repubblicano” o al connubio delinquenza-islamizzazione-terrorismo. In campo economico si è fatta dell’uscita dall’euro (imprecisata nelle modalità) la panacea di tutti i mali. In ambito sociale, i toni della tradizionale opposizione alle rivendicazioni progressiste sui matrimoni gay, la fecondazione surrogata e le “questioni di genere” si sono attenuati fin quasi ad estinguersi. E un po’ alla volta il cumularsi dei dubbi di molti potenziali sostenitori e delle perplessità di non pochi quadri intermedi e militanti di base ha eroso il patrimonio di simpatia che l’effetto-Marine (una donna al comando, piuttosto giovane, vigorosa oratrice e umanamente senza complessi) aveva inizialmente accatastato. E, soprattutto, una certa vertigine di onnipotenza si è fatta strada nella presidente e nei suoi più influenti collaboratori.
Il picco dei consensi raggiunto alle regionali del novembre-dicembre 2015, vicino al 28%, non ha suscitato le conseguenze che era ragionevole prevedere. Lo status di “primo partito di Francia” è stato rivendicato a suon di dichiarazioni e manifesti, ma non è stato cementato da un adeguato sviluppo organizzativo. I vertici del Front national sono parsi molto più preoccupati dal fuoco di fila degli avversari, media in testa, che insistevano sull’esistenza di un tetto invalicabile per il partito (il plafond de verre) e, invece di puntare a consolidare le posizioni raggiunte e, calcolando i progressi ottenuti, a capirne i motivi di fondo, si sono intestarditi irrealisticamente a voler vincere la battaglia presidenziale. Il 30% riscosso da Marine Le Pen nei sondaggi un anno prima della prova delle urne ha illuso, e malgrado la discesa al 27-28% di qualche mese dopo ha fatto dare per scontato un arrivo in testa, magari con qualche incollatura di vantaggio, al primo turno. Così, in luogo della necessaria limatura del programma, degli opportuni approfondimenti dei suoi punti critici e della fissazione di precise priorità nell’offerta elettorale, è venuta una personalizzazione ad oltranza della candidatura della leader, sempre più staccata dal partito e dal suo simbolo, considerati quasi una palla al piede, mentre il dichiarato intento “sdemonizzante” portava a sanzionare chiunque – eletto, dirigente o iscritto che fosse – si lasciava andare a qualche eccesso di scorrettezza politica.
La normalizzazione non ha funzionato. E non può, per qualsiasi formazione populista, funzionare. Perché ai populisti i potenziali sostenitori chiedono di essere “brutti, sporchi e cattivi”, di incarnare un’alternativa drastica ai politici “del sistema”, di dire alto e forte quello che gli altri tacciono, di fare i guastafeste, di promettere un futuro radicalmente diverso dal presente. Le mezze misure non li attirano, le immagini edulcorate li respingono. Non cercano fotocopie sbadite. E così si è passati, nei sondaggi, a cifre sempre più ridotte, mentre il bluff dell’immagine innovatrice, antisistema e moralizzatrice di Macron, il candidato più insider del sistema che si potesse immaginare, mostrava di raccogliere credito. Il passaggio alla seconda posizione del primo turno di voto, con il 24% delle ultime indagini demoscopiche pubblicate trasformatosi in un 21,3%, è stato il segnale che le cose stavano andando male. La catastrofica performance nel dibattito televisivo, con il suo mix di inutile aggressività ed evidente impreparazione, ha fatto il resto. E, quel che più conta, quello che avrebbe potuto essere presentato come un ulteriore importante gradino in una progressiva scalata verso la sfera di governo è stato recepito da chi ne aveva usufruito quasi come un colpo da k.o. La leader si è defilata, le fazioni sono riemerse, la campagna per le legislative è stata condotta in uno stralunato silenzio mediatico che lasciava presagire un risultato molto deludente. La prima attrice è rientrata nei ranghi, nel retroscena della sua candidatura personale all’Assemblée nationale nel suo feudo del Nord-Pas de Calais senza lasciar capire quando avrebbe fatto ritorno sul palcoscenico da vera protagonista.
Messi insieme, questi tre episodi fanno una trama significativa per chi analizza le sorti politiche del populista. Tutti, a modo loro, confermano una debolezza intrinseca del fenomeno. Una mentalità è per sua natura fluida, è un modo di pensare e di sentire più emotivo che razionale, non presenta modalità codificate di reazione agli eventi, è – insomma – una predisposizione psichica più che una bussola di comportamento razionale. I populisti, quindi, si infiammano e si raffreddano a seconda delle circostanze, si indignano e protestano ad ondate e di fronte a questioni specifiche e concrete. Non credono nelle ideologie (anzi, le detestano, considerando cumuli di astrusità, chiacchiere e utopie inventate per prendere in giro la gente comune) e, soprattutto, non fanno riferimento ad una precisa visione del mondo. O meglio: ne intuiscono vagamente i contorni, ne subiscono una parziale e inconsapevole attrazione ma non riescono a identificarla, non la considerano importante. Le loro rivendicazioni, le loro lotte, i loro sforzi possono quindi essere – spesso, non sempre – utili e condivisibili, ma non presentano mai quel carattere di coerenza che li renderebbe ben più efficaci. E molto difficilmente riescono ad intersecarsi, sostenersi vicendevolmente, articolarsi. Ogni partito populista guarda al proprio orticello, difende il proprio popolo, si disinteressa degli altri. Accordi e coordinamenti fra i leaders hanno quasi sempre un carattere effimero e cedono ad ogni minima divergenza. Ciò spiega il carattere ciclico della loro presenza nei piani alti della politica e quel continuo inabissarsi, scomparire per periodi più o meno lunghi e ricomparire quasi d’improvviso all’insorgere di un nuovo versante di crisi che li ha fatti felicemente paragonare da Loris Zanatta a fiumi carsici.
È sembrato a più di un osservatore che, davanti alla gravità della crisi indotta dalla globalizzazione in vasti strati delle società dei paesi economicamente più sviluppati, questo limite fosse destinato a cancellarsi, almeno per una fase di qualche decennio. Perciò si è parlato di “momento populista”. I recenti inciampi portano a revocare in dubbio questa convinzione (o speranza). Ma poiché niente in politica è preventivamente deciso e precluso, non si può escludere che l’attuale stallo possa essere superato da chi attualmente ne ha afflitto. Occorrerebbe però che i populisti imparassero, dalle sconfitte subite, che i loro obiettivi non potranno essere colti continuando a sfruttare a suon di improvvisazioni e adeguamenti ispirati dall’immediata urgenza le opportunità offerte dal caso. Senza l’elaborazione di un quadro d’insieme della situazione con cui si trovano a confronto, senza analisi appropriate, senza la rimessa in discussione complessiva del modello di civiltà e di società contro il quale combattono, la loro sorte sarà quella dei don Chisciotte, senza nemmeno poter godere di quella nobile aura romantica degli ingenui sconfitti dalla Storia che accompagnerà per sempre l’eroe letterario di Cervantes. Riusciranno a raccogliere la sfida? Solo da loro può venire una risposta all’interrogativo. (dalla rivista Diorama Letterario)