Se i gesti valgono più delle parole, se i simboli bruciano più degli incendi, non c’è nulla di cui stare sereni. Quel nastro adesivo portato in piazza dagli “antagonisti” a Palermo sabato scorso per manifestare contro il comizio elettorale del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, deve turbare i sogni a chiunque. Il mancato utilizzo degli sfollagente, il parziale bollettino che riporta a quota zero il numero degli scontri, sono solo un palliativo e non devono farci tirare un sospiro di sollievo. La vicenda di Massimo Ursino, incaprettato in pieno centro a Palermo, disumanizzato e colpito con barbara violenza, pesa eccome. Come anche quel banale strumento d’imballaggio usato a mo’ di arma impropria.
Nastri adesivi mostrati come cinghie allo stadio. Non si tratta soltanto della rivendicazione morale e collettiva di un’aggressione, dietro c’è dell’altro. Ecco la nuova chiave inglese. Peggio ancora, il nuovo mimo della P38 a uso e consumo di studentelli imberbi e figlie dell’onorata borghesia siciliana (le foto di agenzia ci dicono questo). Probabilmente non sanno quello che fanno o lo fanno giocando, che è peggio. E non ci vuole un esperto di semiotica per decriptare segnali fin troppo evidenti. Violenza politica, l’invito assai esplicito alla censura dell’altro e linguaggi talvolta da criminalità organizzata, devono dirci qualcosa che fa ancora più male (con i giusti distinguo, ovviamente) delle bombe carta chiodate esplose a Torino. Qualcosa d’inquietante, di sconcertante.
Ideologismo, odio, disprezzo per la vita umana e per la recente storia civile del nostro Paese. Mettiamoci pure scarse letture e l’assenza di maitre-penseur collaudati. Un mix al vetriolo. Dimentica in fretta la coscienza civica di questa nazione, tanto da scatenare le piazze in nome di un pericolo – quello di un presunto ritorno del fascismo – che non è affatto nell’aria. L’Italia, l’Europa e l’Occidente, vivono al momento altre inquietudini, forse più esasperanti.
Lo studio della storia aiuterebbe a comprendere che le condizioni sociali e politiche attuali poco hanno a che vedere con 1919/22, il 1968 o il ’77. Fa bene chi vuole scongiurare il ritorno agli anni di piombo; rischia di essere ancora più lungimirante chi, invece, vuole impedire che nei libri di scuola sia scritta una triste pagina ancora a venire, quella degli anni dieci. La storia cioè di una generazione afflitta da una crisi economica interminabile, l’accesso al credito legale impossibile, una valanga migratoria che non ha paralleli nell’epoca recente e conflitti armati di entità asimmetrica. E che in mancanza di speranze decide di annientare se stessa. Sperando che quest’immagine sia tuttalpiù un incubo, politici e intellettuali imparino a leggere i segni del presente.