Quando il sole tramonta, l’ombra delle Mainarde, il massiccio montuoso che cinge l’Alta Valle del Volturno, si stende come un manto sul piccolo borgo di Castelnuovo. L’antico castello, cinto da folti boschi e dai prati montani, sorge nella parte più interna della conca appenninica. Nella piazza del paese i turisti infreddoliti attendono al buio l’arrivo de Gl’ Cierv, l’Uomo Cervo.
Reminiscenze
Gl’ Cierv o il rito dell’Uomo Cervo è un’antica tradizione volturnense, che è stata recuperata nel 1985 dopo decenni di abbandono. Alcuni abitanti di Castelnuovo decisero di salvarla dall’oblio e, affidandosi ai racconti degli anziani e studiando le poche fonti documentarie a disposizione, si riuscì a riportarla in auge. In pochi anni divenne una manifestazione apprezzata in Molise e nelle regioni limitrofe, finendo per diventare un evento a carattere nazionale e internazionale.
Gl’ Cierv!
Con la comparsa sulla scena delle maschere dello stregone Maone e delle sue megere, le Janare, inizia la rappresentazione. Ballando e cantando freneticamente, le presenze malvagie lasciano pian piano la piazza, mentre alcuni villani fanno il loro ingresso. Gli zampognari con la musica e con i loro canti animano il pubblico e i figuranti, ma all’improvviso si fa silenzio e si sente gridare “Glie Cierve!”. Dalla parte alta del paese scendono, correndo, l’Uomo Cervo e la sua compagna, vestiti di pelli di capra e ornati con vere corna di cervo. Si agitano in preda al furore e distruggono tutto quello che trovano, suonando senza posa i campanacci appesi ai loro velli. Martino, un personaggio simile a Pulcinella, doma la loro rabbia e li cattura con una corda. I villani ritornano sulla scena e accusano le bestie delle colpe peggiori e, onde placarli, offrono un piatto di polenta. I due animali rifiutano il dono e, spezzando la corda che li tiene prigionieri, continuano a dimenarsi senza quiete. Solo il Cacciatore li ferma abbattendoli con il suo fucile e li riporta in vita soffiando nelle orecchie. Il cervo e la cerva, adesso docili e mansueti, imboccano la strada pietrosa verso le selve montane. Così ha termine la rappresentazione.
Una spiegazione
Il rito dell’Uomo Cervo si svolge nel periodo precedente il Carnevale e non pochi autori, come l’antropologo Alessandro Testa, lo hanno messo in relazione con questa ricorrenza. Nonostante i suoi eccessi e i suoi picchi di gioia profana, la festa era tollerata dalla Chiesa Cattolica, perché rappresentava un momento di sfogo sociale prima della Quaresima: i fedeli avrebbero così sopportato con più serenità i giorni di digiuno e di penitenza. Fino agli inizi del Novecento l’Uomo Cervo faceva la sua comparsa a Castelnuovo la domenica precedente il Carnevale o quel giorno stesso. Secondo la tradizione, soprattutto nel Mezzogiorno, al termine delle feste carnevalesche l’omonimo pupazzo, da perfetto capro espiatorio, veniva accusato di tutti i mali della collettività e lo si gettava al rogo per purificare la comunità. Se compariamo questa usanza con la rappresentazione di Castelnuovo, possiamo notare dinamiche simili: da ciò è facile intuire l’antichità delle origini del Carnevale. Quando Martino cattura l’Uomo Cervo, i villani lo accusano di essere il responsabile di tutte le calamità del villaggio. L’azione purificatrice la compie il Cacciatore che uccide gli animali per farli poi risorgere docili e mansueti. Al contrario, la cenere del pupazzo di Carnevale veniva sparsa per i campi per propiziare la loro fertilità. Naturalmente l’aggressività dei cervi è anche il riflesso delle avverse forze naturali che impedivano all’uomo di vivere serenamente in un ambiente difficile come quello appenninico. Al di là delle forme, sia nel Carnevale che nel rito dell’Uomo Cervo è implicito il concetto di “rinascita”. Sono entrambi riti rigenerativi del cosmo e la natura bizzarra de Gl’ Cierv non fu mai avvertita come una minaccia dalle autorità religiose.