“Una sola figura, or ora, mi ha colpito: una donna bruna, elegante, vestita di seta a righe orizzontali bianche e nere, con un cappello di feltro blu discretamente fiorito nell’ombra della larga tesa. È passata rasentando la ringhiera alla quale mi appoggio ed è sparita dietro l’angolo del caffè, alla mia destra.” – Ardengo Soffici
Tira una brutta aria negli ultimi tempi, in Italia e forse ovunque. Meglio indossare un cappello. Ne saremo ancora degni? Nulla di paradossale, banalmente metereologico o peggio allusivamente sarcastico, cercheremo anzi di dimostrare come tale semplice pratica possa migliorare la vita della Nazione, soprattutto andando a beneficio dei suoi involgariti abitanti. Da subito inevitabile, purtroppo, la menzione a Borsalino, storico marchio alessandrino recentemente fallito a causa delle solite fumisterie d’alta finanza. Quei tali, definiti esperti, non ne azzeccano mezza, ma è il mercato si ostinano a dire facendo pratica di angosciante realismo: appunto! 160 anni di leggenda, messi in testa alle stelle del cinema come a letterati e statisti, agli eleganti di ogni latitudine, liquidati da affaristi del quotidiano col capo scoperto, come se nulla fosse. Principianti. Poi certo, attestati di stima, solidarietà, i bei tempi andati, le foto dei nonni e tanto fatalismo. Troppo. D’altronde la tutela delle eccellenze tricolori non verrà certo dai politici: se n’è mai visto uno col cappello, al di fuori della commedia di dover scimmiottare una divisa o una corporazione? Rarità, tutto il resto è rappresentanza attoriale o propaganda elettorale (il capostazione). Superfluo scomodare l’alchemica tavola smeraldina, per intuire che ciò che è in basso è come ciò che è in alto, ovvero che i politicanti assomigliano fin troppo ai loro elettori. Si fotta la democrazia, come sacrificio al cappello.
Già per Platone e almeno fino al Romanticismo, etica e estetica erano di pari valore, messe in simbiosi come nell’antico detto kalòs kai agathòs. E la famosa foto di Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi? Guastatori ancora tutti col feltro, tant’è che poi se ne fece Manifesto, quello del cappello futurista. Su quell’equilibrio si è fondata e sviluppata la civiltà europea. Ovvero La Civiltà in quanto tale, sicché l’elogio del cappello non deve sembrare qui un ozioso esercizio d’uncinetto, tipo quello di pettinare le bambole o andare a votare. Il copricapo, un tempo segno distintivo dell’autorità sacerdotale così come della regalità – mitra e corona -, parimenti si diffuse tra il popolo per mere esigenze di riparo, dal sole estivo e dai rigori invernali. Curioso dunque, come la regola smeraldina d’Ermete sia rimasta valida, pur nel ribaltamento di condotta: ciò che prima era coperto per prestigio o utilità, ora è esposto alla mercé di ogni sguardo, in animalesco vanto di chioma o trapianto. Sempre in alto come in basso. Quello che per impeto antiborghese era valido tra scapigliati e poeti maledetti, assomiglia nella nostra epoca maldestra a una pigrizia da zotici. O da zoologi impazziti. Le scimmie infatti, tanto amate dagli evoluzionisti, mai hanno indossato un berretto. Ce ne ricorderemo, quando sarà il caso di battagliare per le sacrosante ragioni dell’involuzionismo imperante? Chissà, nel frattempo tocca constatare qualcosa d’ancor peggio, ovvero la diffusione persistente del berretto americano con visiera, quello sportivo o da rapper. Quello irreparabilmente apocalittico. Raccapricciante gingillo da Kali Yuga, tuttavia inequivocabile segno dei tempi. Tempi che fanno schifo, allora il cappello diventa la parodia da paperino, il fumetto corrotto di ciò che era stile, plateatico di stoffa cinese sul quale ricamare un logo. Facendo per altro pubblicità gratuita.
Eppure, nulla è perduto. Abbiate fiducia. Tenere alto il capo, con qualcosa sopra che ne protegga i pensieri. Non solo cappellaio matto sedotto da Alice, dalle confraternite del Tabarro alle carbonerie dell’assenzio e del vermut, dalle logge di fumatori di sigaro o pipa ai frequentatori di botteghe artigianali – in sprezzo all’alienante centro commerciale -, poi lettere scritte a mano e sigillate con ceralacca al posto di cuori di pixel, la musica in vinile, libri, quadri e sculture – se non puoi permetterti un Burri, compra da un artista emergente, somaro! – le rane fritte contro il sushi, il teatro contro la playstation, la pietra contro la plastica. Poi il rituale sublime di farsi confezionare e impacchettare il copricapo – foss’anche un basco francese – nello storico cappellificio cittadino. Fatelo! Meritate un simile piacere? Generazioni in foto d’epoca e tradizioni, chi siamo noi per tradirle? Non si tratta di materialismo o di feticismo dell’oggetto, nemmeno di passatismo messo in posa carnevalesca, si tratta di fare Resistenza. Scrive Giuseppe Scaraffia ne Il demone della frivolezza: “Il declino inesorabile del secondo dopoguerra, ha tramutato il cappello in oggetto simbolico. Le sdrucite bombette dei comici tradiscono il declino del modello aristocratico. Quelle metafisiche di Magritte ratificano la forzata uniformità, imposta ai singoli dalla società di massa”.
In altra sede così mi espressi: “Esteticamente il progresso fa proprio schifo. Eticamente fate voi, a me basta la prima”. Mentre il Manuale Militare del nonno chiosa in dettagli di perduto bon ton: “Quando si entra in luoghi chiusi sarebbe cortesia salutare in modo generico. Se molti sono a capo scoperto, scoprirsi. Lo zotico ha tendenza a tenere il cappello in testa, ma le persone educate entrando in casa, in ufficio, in luoghi di riunione, si scoprono subito”. Disposizione quest’ultima a uso maschile, perché come dovrebbe essere noto a tutti, per le femmine il copricapo è consentito anche tra le quattro mura. Per essere sempre misteriosamente seducenti, per dissimulare coprendo talvolta gli occhi.
A tal proposito, converrà ribadire l’irreparabile danno arrecato alla bellezza dal noioso femminismo? Quello dei jeans e del primitivismo estetico? L’utero è di certo tuo, ma col cappello saresti decisamente più attraente, cara mia. Poi vedi tu, siamo in democrazia purtroppo.