Cinquina per PalloneAnnoZero, il manifesto di controproposte per salvare il paziente calcio. Giovanni Fasani, centravanti goleador del blog Alla faccia del calcio e autore di un libro omonimo (e pop), lancia il suo appello: un modello italiano da cui ripartire c’è, eccome. E’ la Dea. Del ’63, semplice e avanguardista.
Salvare il calcio italiano sembra al momento un’impresa a dir poco titanica, considerato il pessimo momento attuale, balzato all’occhio di tutti con la clamorosa mancata qualificazione a Russia 2018. In Italia siamo tristemente recidivi nell’accorgerci dei problemi a frittata fatta, scendendo idealmente dal pero laddove invece le avvisaglie della crisi del movimento fossero note ed evidenti. Altra peculiarità italica è quella di abbondare nelle proposte per la risoluzione della situazione, alternando proposte percorribili a sproloqui assolutamente fuori contesto e periodo. Leggiamo continuamente che il problema sono i tanti stranieri, per poi collegare il concetto al mancato utilizzo delle risorse dei nostri vivai, concettualizzando il tutto invidiando l’organizzazione a livello di reclutamento tedesca, inglese, francese e spagnola, assolute eccellenze a livello mondiale. A mio parere una simile lettura sarebbe pienamente condivisibile se il nostro paese fosse emergente dal punto di vista calcistico, quando invece era, è e dovrebbe essere un assoluto punto di riferimento, in virtù delle vittorie, dei campioni prodotti e della proverbiale sagacia tattica del quale possiamo vantarci di essere maestri.
Le risposte ai problemi di oggi le possiamo trovare guardando indietro, andando a rivalutare determinate realtà positive, magari a prima vista anacronistiche, ma significative come concetti basilari.
Da appassionato del calcio di altri tempi propongo un’analisi sull’Atalanta del 1963, squadra di tutto rispetto che conquistò al termine di un’indimenticabile stagione la sua unica Coppa Italia. La Dea, allenata da Paolo Tabanelli, riassume in pieno quelle caratteristiche che ritengo essere primarie per avviare un convincente cambiamento odierno. In primis la tramandata efficienza del vivaio orobico è confermata dalla presenza di ben sette giocatori da esso proveniente nell’ossatura base della squadra. Tra di essi l’eccezionale talento di Angelo Domenghini emerge in tutto il suo splendore, tanto da essere l’assoluto protagonista, sia per le prestazioni, sia per i gol, ben cinque, tre dei quali rifilati al Torino nella finale di Milano. Quindi il concetto che passa è quello che avere un vivaio ben organizzato e competente permette di attingervi ottimi giocatori, talvolta addirittura qualche campione, come appunto l’instancabile Domingo, gloria futura di Cagliari, Inter e nazionale. Il lancio in prima squadra è possibile laddove via sia uno zoccolo duro in campo in grado di essere una guida e un esempio per i giovani; il capitano Piero Gardoni, Umberto Colombo, Flemming Nielsen e Salvador Calvanese sono perfetti in tale veste, portando la necessaria esperienza all’interno del terreno di gioco ed il giusto carisma nelle classiche situazioni “di spogliatoio”. Un discorso a parte merita il grande Dino Da Costa, che a Bergamo ritrova spunto e gol, dimostrandosi a 32 anni importantissimo in campionato (12 reti) ed in Coppa Italia (tre fondamentali gol contro Como, Padova e Bari). Nella nostra epoca, dove i calciatori cambiano maglia con grande facilità, sembra estraneo il concetto di bandiera o gruppo storico, ma, guarda caso, anche i più recenti successi di squadra si basano sulla presenza di un gruppo di elementi permanente e saldamente confermato. La compagine bergamasca presenta quattro giocatori di origine straniera, a dimostrazione che attingere oltre frontiera non è di per se un errore, qualora il livello qualitativo degli acquisti possa portare un valore aggiunto. In tale senso il già citato svedese Nielsen è un perno del centrocampo, l’attaccante argentino Calvanese è una vecchia lenza dall’infinito mestiere, Kurt Christensen detto Flipper è un esterno efficace e completo (decisiva la sua doppietta in coppa al Catania) ed il redivivo oriundo Dino Da Costa è un campione dalla tecnica squisita e dal gol facile. E’ la deprecabile caccia odierna allo straniero ad essere esagerata e molte volte fuori contesto, limitandosi a quelle frasi fatte ed a quei luoghi comuni che sanno davvero tanto di aria fritta. Come detto a fare la differenza quando si scelgono i giocatori è la competenza nel riconoscere il talento senza pensare ai confini geografici, partendo dal concetto che valorizzare un giovane è sempre positivo e che nell’immediato futuro quest’ultimo potrà essere un giocatore chiave o al limite un pezzo forte del mercato.
L’odierno scouting è un concetto da utilizzare al meglio, trovando ancora maggiore beneficio quando non lo impone ai danni della valorizzazione dei talenti già in essere e di precedenti logiche di gestione societaria. Anche la mentalità della squadra è un fattore importante, specialmente la ricerca di una gioco propositivo e nei limiti spettacolare, in grado di valorizzare le qualità dei singoli ed implementare un atteggiamento tattico. A prima vista sembra un’eresia parlare di calcio proposito in un’epoca dove imperava il nostrano catenaccio, portato al massimo splendore dal Mago Herrera con il bene placito dell’amico/rivale Nereo Rocco. L’Atalanta non è ovviamente un squadra garibaldina o tatticamente sciagurata, al contrario è proprio l’ordine tattico a favorirne la prudenza, ma, allo stesso tempo, la tendenza ad attaccare in massa in fase di possesso. Non è infatti raro vedere la Dea scendere in campo con l’ala tornante Domenghini e tre attaccanti di ruolo da scegliere tra Enrico Nova, Luciano Magistrelli, Mario Mereghetti e Calvanese, con il versatile Da Costa come ulteriore alternativa o possibile ancora più offensiva soluzione a centrocampo. Anche nella nostra epoca, non essendoci all’orizzonte un nuovo Arrigo Sacchi, è proprio il pragmatismo abbinato ad un’impostazione maggiormente offensiva la chiave per migliorare concettualmente e ridurre il gap che subiamo in confronto ad altri movimenti calcistici presi ora a modello. Parafrasando lo stesso allenatore di Fusignano nel calcio conta avere “occhio, pazienza e bus del cul”; se per l’ultima virtù si può far poco se non sperare, in merito alle prime due si ritorna al discorso di competenza e di pazienza nel lasciare che i progetti prendano forma, ragionando nel lungo periodo.
Seppur il guardarsi indietro non sia mai un sinonimo di progresso, vale la pena attingere da quelle situazioni che si sono rivelate positive, non dubitando che anche l’andamento del fenomeno calcio possa essere in qualche modo ripetitivo.
Fare tesoro dalle esperienze è quasi un obbligo per un paese con la nostra storia calcistica ed in tal senso auspico personalmente un giusto connubio tra esperienza passata e razionale innovazione.
Magari andando ad analizzare realtà come l’Atalanta del 1963, fiera espressione di un calcio semplice, forse non più attuabile, ma possibilmente evolvibile con le dinamiche dei nostri giorni.