Mettere in discussione l’ortodossa verità nell’era post-moderna potrebbe sembrar facile, una strada spianata dal pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”. Eppure ci sono temi, immagini, idee che dal secondo dopoguerra in poi sono stati marchiati dal fuoco dei vincitori, bollati per sempre come sinonimi diabolici del male. Ed Emmanuel Carrère nel suo “La vita come un romanzo russo” decide di mettere in discussione la piatta e rassicurante verità del sentire comune per raccontarne un’altra, quella custodita e nascosta per troppi anni dalla sua famiglia. Con la stessa efficacia con cui ha raccontato l’irregolarità fascista di Eduard Limonov, scrittore russo e patriota.
Nel suo romanzo inizia così ad affiorare la storia del nonno materno Georges, esule georgiano a causa dell’annessione del suo paese nell’URSS, stabilitosi in Francia negli anni venti ma che nonostante la sua intelligenza e cultura fatica a trovare una stabilità economica. Come tanti uomini dell’epoca avverte in tutto ciò il fallimento delle democrazie occidentali, avvicinandosi pian piano agli ideali di chi sogna un Nuovo Ordine Europeo. Conoscendo il tedesco è ben felice di lavorare come interprete durante l’occupazione nazionalsocialista della Francia, scegliendo quindi di stare dalla “parte dei fascismi” e di subire la cattura e l’esecuzione da parte dei membri della Resistenza.
Ma la penna anticonformista di Carrère non mostra il nonno come un colpevole, anzi la chiarezza e la limpidità della sua scrittura rendono visibile al lettore il profilo di un uomo complesso, rendendo le sue scelte quantomeno comprensibili, se non addirittura condivisibili. Riga dopo riga emerge una verità alternativa, quella di un nonno “retto, onesto e generoso” rapito e fatto sparire dai “buoni” della Resistenza semplicemente perché collaborazionista. Una testimonianza che desta il pubblico dal torpore del politicamente corretto a colpi di periodi incisivi e contestualizzanti, difficilmente contestabili proprio come sillogismi aristotelici.
Durante l’esorcismo dal fantasma che lo tiene prigioniero con la sua famiglia, l’autore si imbatte quindi nella storia dell’ungherese Andràs Toma, anche lui collaborazionista dei tedeschi e rinchiuso per mezzo secolo dai sovietici in un ospedale psichiatrico. Parallele come le rotaie della ferrovia Transiberiana, le vite di Georges e Andràs si incontreranno nella sperduta città russa di Kotelnic dove, tra vodka e povertà, Carrère giunge al termine del suo percorso catartico.