Articolata tra Palazzo Venezia e le recentemente aperte Gallerie Sacconi al Vittoriano, fino al 4 marzo 2018 la mostra: Voglia d’Italia. Il collezionismo internazionale nella Roma del Vittoriano offre al visitatore di poter conoscere alcuni momenti straordinariamente significativi del mecenatismo straniero verso il nostro Paese che hanno caratterizzato parte della storia museale italiana del XX secolo, nonché accorgersi di quella malattia dei depositi di cui scriviamo da circa dieci anni. Sia come sia, la esposizione in corso a Roma consente di ammirare opere di grande suggestione e dalle provenienze più svariate, fruendo di un biglietto unico per le due sedi, le quali distano poche centinaia di metri l’una dall’altra.
L’inestimabile dono dei Coniugi Wurts a Roma e all’Italia
Per la prima volta il pubblico della Capitale potrà ammirare la raccolta vasta e sorprendente che i coniugi statunitensi George Washington Wurts (1843 – 1928) e Henrietta Tower (1856 – 1933) misero insieme a cavallo fra XIX e XX secolo e donarono poi allo Stato italiano, per l’esattezza al museo di Palazzo Venezia, dove tuttora è conservata, anzi sarebbe meglio dire in gran parte obliata nei magazzini. Fosse solo per questo, la mostra in questione rappresenta una occasione più unica che rara, per accorgersi del Mare di Bellezza che custodiscono i nostri musei, cosa che dovrebbe per giunta stimolare una certa indignazione nel non vedere questi stupendi oggetti esposti in modo permanente.
Purtuttavia, questa mostra è per certi versi l’immancabile “spot franceschiniano”, lo diciamo subito. Ossia, farci qualche danaro, e poi far ripiombare le opere nel silenzio di scatole e camere buie, nel mentre, i direttori e curatori di turno si pavoneggiano per il nulla, giacché delle mostre ce ne facciamo poco, quando potremmo includere questo tesoro nel percorso espositivo vero e proprio di Palazzo Venezia. Anticipiamo subito un altro dato che come minimo adira: parte degli oggetti esposti, segnatamente come avremo modo di sottolineare quelli della Collezione Tower-Wurts, erano in deposito permanente presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘Giuseppe Tucci’, recentemente “ucciso” dal Ministro dei Beni Culturali, con ossequioso silenzio di funzionari e dei soliti pomposi nomi della Kultura italiana: Canfora, Montanari e Settis. Il lettore forse ci perdonerà qualche “nervosismo” poco accademico, ma lo ripetiamo, la mostra è molto interessante, ma se ci si ferma a riflettere su determinate sfumature, ebbene un minimo di rabbia speriamo sinceramente che venga tollerata.
Alla base della esposizione vi è comunque l’idea di ricomporre, quasi fosse una “narrazione per oggetti”, il contesto culturale cosmopolita nel quale si sviluppò la raccolta dei Wurts. Sarebbe a dire, quella forma di collezionismo altamente eclettico che, tra Ottocento e Novecento, si legò così intimamente all’Italia, fino a concretizzarsi spesso nella donazione allo Stato o ad alcuni comuni di intere sontuose raccolte. Questa è una commovente forma di mecenatismo, poiché erigere a Patria dell’Anima una terra straniera è segno di enorme sensibilità, regalando infine a essa il frutto della propria passione artistica, coltivata attraverso sforzi economici e di tempo, esemplificando una forma di amore tra le più potenti che essere umano possa manifestare. Tra questi innamorati della Terra di Dio – in tale modo dovrebbe essere chiamata l’Italia per la sua inarrivabile Bellezza – nella epoca moderna hanno eccelso quegli anglosassoni colti e poco amanti dei loro Paesi di origine, che dal Grand Tour in poi hanno quasi divinizzato la nostra Nazione. Una attrazione non certo fatale, ma, anzi, generatrice di cultura e ricerca, che si è drammaticamente interrotta con l’invasione americana del ’45, quando gli statunitensi, in maggioranza popolo rozzo e insipiente, assai diverso dai Coniugi Wurts, i quali, del resto, non ne volevano proprio sapere di rientrane negli USA, ridussero nell’immaginario occidentale il Belpaese a pizza, mafia e mandolino. Uno dei grandi meriti della mostra, un “suo” merito per la storia che racconta, più di chi l’ha curata, è il presentare la grandezza dell’Italia, per mezzo dell’amore verso di essa di chi italiano non era; cosa che, in questa Repubblica, che vellica senza troppe remore la antipatia per la parola “Patria”, dovrebbe indurci a profonde e serissime considerazioni.
Il collezionismo britannico, e in minor caso americano, ha portato non solo a delle importanti donazioni al Patrimonio Italiano, ma persino alla creazione di musei di rilevanza internazionale: è il caso del Museo Horne e del Museo Stibbert di Firenze. Nell’ambito di questo sentimento per il nostro Paese, il lascito dei Wurts si attesta quale il più ragguardevole contributo straniero per l’arricchimento dei musei italiani nel Periodo Postunitario, assieme alla donazione di Louis Carrand, antiquario francese che nel 1888 affidò al Bargello di Firenze la sua raccolta di oltre 2500 opere fra arti decorative e pitture.
Tornando alla Collezione Wurts, la sua particolarità non è soltanto individuabile nella eterogeneità, considerato che la tendenza ad accumulare capolavori dell’arte occidentale insieme a pezzi esotici era una ineludibile moda nel collezionismo europeo a cavallo tra XIX e XX secolo, cosa mirabilmente testimoniata dalle suddette raccolte Carrand e Stibbert. Effettivamente, ciò che rende ancora oggi unica la esperienza del mecenatismo di questa coppia di eruditi statunitensi era lo “sfondo” sul quale si affacciava la loro vita da protagonisti della élite, sia romana che straniera, nella nuova Capitale d’Italia. I radicali cambiamenti, specialmente in ambito urbanistico, vissuti in quegli anni a Roma trovano la loro quintessenza nella costruzione del Vittoriano, mastodontico edificio commemorativo iniziato nel 1885 e inaugurato nel 1911, in occasione dell’Esposizione che celebrava il cinquantenario dell’Unità d’Italia. Esso divenne tosto l’emblema che caratterizzò la città e l’Italia intera sino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale; dalla vittoria contro gli austro-ungarici che spinse a erigere il monumento, sino alle oceaniche adunate del Periodo Fascista. Non è un caso, quindi, che persone talmente innamorate di Roma quali i Coniugi Wurts abbiano percepito la importanza di questa parte dell’Urbe, decidendo di lasciare il loro tesoro al Museo di Palazzo Venezia, perpetuando così quei rapporti con la figura di Mussolini che molto astio gli procurarono sia in Patria, sia tra i connazionali residenti nella Capitale. Ai Wurts, allo loro generosità verso l’Italia e Roma è dedicata la sezione allestita per l’appunto a Palazzo Venezia, con l’esposizione delle opere più significative della loro raccolta.
Originari di Philadelphia – la più “tedesca” tra le città americane, per via dei tanti immigrati di lingua germanica che vi affluirono tra la fine del ‘800 e l’inizio del ‘900 – il diplomatico George Wurts e la moglie Henrietta giunsero a Roma nel 1898. La coppia si stabilì a Villa Sciarra (acquistata nel 1902), che fungeva da residenza estiva, nonché da luogo ove radunare il beau monde della Capitale. A questa si affiancava la loro abitazione ufficiale di Palazzo Antici Mattei, in cui ammassarono ben 4000 oggetti d’arte, dalle provenienze e tipologie disparate: dai dipinti alle porcellane; dagli strumenti musicali agli arazzi; dai tappeti agli avori; dalle sculture lignee ai bronzetti; dai reperti antichi agli oggetti contemporanei; tutto confluito successivamente nella loro donazione, formalizzata da Henrietta, ormai rimasta vedova, nel 1933. La stessa Villa Sciarra venne data in dono, probabilmente a Mussolini in persona, con la clausola che venisse trasformata nella sede dell’Istituto di Studi Germanici, che ancora oggi organizza numerosi importanti eventi accademici. Questo “doppio rapporto” è l’anima della storia dei Wurts e del loro collezionismo. Da una parte, un legame necessario, così da darsi un blasone aristocratico dal sapore europeo, con le proprie radici tedesche, svizzere per la precisione; dall’altra, un rapporto di grande cordialità col Duce, come testimonia una lastra commemorativa in marmo posta nel 1932 sulla facciata dell’edificio principale della Villa, dalla quale è stato scalpellato via il nome di Mussolini. Uno dei tanti scempi di questa Era Repubblicana, dove la mancanza di memoria e rispetto rasenta sovente il grottesco.
Alle opere italiane ed europee, nella Raccolta Wurts se ne affiancano diverse dalla Russia, ricordiamo, infatti, come George Wurts avesse vissuto a San Pietroburgo tra il 1882 e il 1892. Di grande interesse è poi il gruppo di oggetti di area germanica, soprattutto le sculture lignee, la loro presenza così massiccia si lega certamente alla volontà dei Wurts di riallacciarsi, come detto, a una ascendenza europea di radice germanofona.
Una collezione, quella di questa originale coppia americana, costruita sull’amore per gli oggetti e non incentrata su dei capolavori, bensì sul raccogliere pezzi dal valore storico ed estetico. A tal proposito, spicca nella donazione il corpus di oggetti orientali, misconosciuto, quanto assolutamente prezioso. George Wurts dimostrò un persistente interesse verso l’arte estremo-orientale, radunando sistematicamente numerosi oggetti, specialmente cinesi e giapponesi. Egli fece ciò inizialmente durante il decennio a San Pietroburgo, che gli permise diversi spostamenti a Tōkyō, poi in occasione del suo secondo matrimonio (1898) con Henrietta, celebrato a Philadelphia, in occasione del quale i due novelli sposi decisero di fare il viaggio di nozze in Asia, soggiornando in India e in Giappone. La sala dedicata agli oggetti orientali della Collezione Wurts è davvero di estremo impatto, con degli enormi pannelli cinesi ricamati su seta risalenti alla Dinastia Qing (1644 – 1912). Il pezzo forte di questa parte della raccolta si trova però esposto nella “seconda sezione” della mostra, presso il Vittoriano. Trattasi di una opera che non abbiamo avuto modo di vedere nemmeno in Giappone, data la sua imponenza e ricchezza ornamentale. Parliamo di un incensiere (Kōro, 香炉) raffigurante: Handaka Sonja con il suo dragone e due attendenti, (fine XIX secolo, bronzo e legno) alto 280 cm. Esso faceva parte di quel deposito permanente di cui sopra e confluito nelle raccolte dell’oggi vergognosamente soppresso Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci”. Il Curatore della mostra, Emanuele Pellegrini, dal toscanissimo accento e solito dinamismo renziano, si è fatto scappare che il coperchio di questo manufatto è sparito dai depositi del Museo. Davanti alla nostra costernazione, egli, parimenti a tutti i membri della Stampa radunati al momento dell’anteprima della mostra, ha semplicemente tirato dritto. Ci chiediamo, questo oggetto prezioso che fine farà adesso che il “Museo Tucci” non esiste più? Invero, la importante raccolta nipponica di questa inarrivabile collezione asiatica era nella sua quasi totalità nei magazzini. Allora, l’incensiere verrà esposto nella confusa sede del Museo delle Civiltà all’EUR o a Palazzo Venezia? Noi invece crediamo che finirà nuovamente sepolto da qualche parte. In qualsiasi altra Nazione decente del pianeta, un pezzo tanto appariscente sarebbe stato esibito con giusta fierezza; noi lo “buttiamo” via in un angolo di qualche tetro deposito. Comunque, la cosa che fa più male è che un dono al Popolo Italiano da degli stranieri sia trattato con tanta, insopportabile noncuranza… cronache repubblicane sarebbe il caso di dire; ossia, di sistematico scempio.
Un altro fiore all’occhiello della Collezione Wurts è il già citato nucleo di area germanica, che costituisce uno dei perni del Lascito. Opere rare persino in Germania, come è stato confermato da alcuni esperti venuti da questo Paese per valutarle, tra cui vanno segnalati dei veri capolavori della scultura lignea del Rinascimento tedesco, come una Sant’Anna Metterza (1520, ca.) di ambito svevo e un San Michele Arcangelo (XV secolo) di Michael Pacher, nonché alcuni oggetti “curiosi” quali dei boccali decorati in argento e avorio.
La ultima cosa che va ricordata dei Wurts riguarda la fondazione nel 1870 della chiesa episcopale, dunque parliamo di anglicani americani, di San Paolo entro le Mura (St. Paul’s within the Walls), che contiene quell’assoluto unicum che è il ciclo musivo su disegni di Edward Burne-Jones. Il denaro che George Wurts versò per la costruzione della Chiesa fu una conseguenza naturale della forte amicizia che lo univa al reverendo Robert J. Nevin, del quale Wurts acquisterà in seguito la raccolta d’arte. Tuttavia, il diplomatico americano si impegnò pure in altre iniziative filantropiche. Ad esempio, ricoprendo il ruolo di Segretario della fondazione della casa di Keats e Shelley, ulteriore luogo simbolo della comunità angloamericana di stanza a Roma.
Il rafforzamento dell’alleanza tra Italia e Germania, assieme all’ottimo rapporto instaurato col Duce, giocò senz’altro in maniera determinante come spinta per un lascito, come quello dei Wurts, decisamente imponente, tanto da indurre lo stesso Mussolini a ricompensare il notaio che aveva favorito tale donazione.
Per riflettere sulla storia del mecenatismo straniero in Italia
Passiamo ora alla sezione allestita al Vittoriano. Questa è meno avvincente di quella presente a Palazzo Venezia. In essa si racconta del contesto storico e sociale entro cui vissero i Wurts e gli altri collezionisti attivi nel Belpaese, con particolare attenzione chiaramente per gli angloamericani. Oltre al sopracitato incensiere giapponese, degna di particolare interesse è la riproduzione della Statua di Settimio Severo, una copia esatta, commissionata da George Wurts a una fonderia belga, dell’originale in bronzo antico rinvenuto nel corso del XVII secolo vicino a Villa Sciarra e venduto a Bruxelles – dove è tuttora oggi – ai primi del Novecento.
Per il resto, dipinti e oggetti di varia natura stanno a ricordare quanto sia stata una passione continua quella degli stranieri per l’Italia, più che per gli italiani a esser sinceri, la quale si concretizzò in numerose donazioni. Potremmo addirittura parlare di doni “multiformi”, talora anche bizzarri, come il Ritratto dei Coniugi Perkins, grandi mecenati di Assisi: all’americano Frederick Mason Perkins (1874 – 1955) si deve il lascito di un significativo gruppo di quadri all’Ordine Francescano, con una cinquantina di tavole (secc. XIV – XVI), tra le quali si ammirano opere di Pietro Lorenzetti, di Lorenzo Monaco e del Sassetta. Il quadro (1922, olio su tavola) che raffigura i due coniugi statunitensi è opera del pittore russo Nicola D’Asnasch, ed è mutuato dal celeberrimo Doppio ritratto dei Duchi di Urbino (1465 – 1472 ca., olio su tavola) di Piero della Francesca conservato agli Uffizi. Tale era, in sostanza, l’Italia per questi ricchi e colti stranieri, una irripetibile possibilità per rivisitare il sogno rinascimentale; ovvero, appropriarsi in modo nobilissimo, e non certo nella indecorosa maniera furtiva che caratterizzò Napoleone Bonaparte, di una storia che loro non era e che nondimeno amavano a tal punto da sentire propria.
Inquietanti e crescenti tendenze esterofile
A proposito del quadro di D’Asnasch, questo è stato scelto come immagine per la copertina del Catalogo della mostra, una pubblicazione corposa, quanto scarsamente avvincente nella scrittura e nelle riflessioni. Se è condivisibile quello che ha affermato il suddetto Pellegrini al momento della conferenza stampa che sono state recuperate: “opere inabissate nei depositi”, eppure, a dir poco inorridiamo per la sua scelta di cavalcare l’onda che vuole che i nostri pittori del Rinascimento e Barocco siano definiti: Old Masters, riprendendo in modo incomprensibile la definizione utilizzata della Accademia Americana. Una mentalità, questa, che è la epitome non solo di una francamente umiliante sudditanza culturale, ma altresì sintomo di quella tendenza in sé assai grezza tipica degli statunitensi di semplificare e generalizzare, imponendo ovunque i propri canoni. Perciò, se prima si aveva ben chiaro l’inquadramento storico di una tela, attribuendola a una determinata corrente artistica, ora, dicendo Old Master, non si capisce né si spiega, ma si fa solo confusione, non sapendo se si stia parlando di una opera di un pittore afferente ai “primitivi”, oppure di un autore del Rinascimento o un di manierista. Tanto agli americani, che storia non hanno, cambia poco o nulla. Per converso, a noi questo, oltre a mostrarci puntualmente asserviti sotto ogni aspetto, crea un danno scientifico. Una definizione generica e imprecisa dovrebbe essere stigmatizzata da una Università che vanta l’inarrivabile blasone italiano, con atenei che hanno dato scienza e sapere nei secoli all’Occidente. Ciò malgrado, ci facciamo dire dagli altri come chiamare la nostra arte. Stiamo pur certi che non erano questi i desideri di gente come i Wurts, i quali si sentivano italiani per vocazione e mai avrebbero voluto intaccare nemmeno la più piccola parte di una cultura che costoro consideravano unica e inimitabile.
Raccogliere come stile di vita
In conclusione, questa “voglia d’Italia” narrata nella esposizione romana dovrebbe spingere ad approfondire e, nel contempo, divulgare un qualcosa che altro non si può definire che una storia d’amore. Un sentimento profondissimo verso quello che Dante definì il: “Giardino d’Europa”. Una passione che incarna la essenza stessa del collezionismo, quella febbre per l’oggetto che spinge ad amare l’inanimato più che le persone, così potentemente espressa dallo scrittore e a sua volta collezionista Carlo Dossi (1849 – 1910): “Felice chi possiede un paio di brutti quadri antichi, o qualche scompisciato e tarmato volume o una mezza dozzina d’idoletti giapponesi – o dei frammenti di sasso ecc., che gli permettono di dire, ‘la mia pinacoteca!’, ‘la mia biblioteca!’, ‘il mio museo!’”. Una ragione di vita, questa è la formazione di una raccolta personale, un modo di stare al mondo che ha accomunato personaggi quali Frederick Stibbert, Gabriele D’Annunzio e Mario Praz, così diversi gli uni dagli altri, come lo sono del resto i loro musei, ma accomunati dalla medesima pulsione all’accumulo.