Venato di malinconia, Benedetta follia è un film dove Carlo Verdone si conferma ai vertici della commedia (all’) italiana, quella che si distacca dalla farsa, perché, divertendo, fa riflettere. La “follia” del titolo è “benedetta” perché è la reazione di un commerciante di arredi sacri, sessantenne romano integerrimo (Verdone), all’abbandono da parte della moglie (Lucrezia Lante della Rovere). Il nostro commerciante è, come tanti coetanei, alle prese con uno smartphone che non ama e non controlla, eppure accetta – per disperazione – appuntamenti con sconosciute quasi coetanee, tabagiste, sovrappeso, variamente maniache: di quelle persone che fanno sentire i cuori solitari ancora più soli. A innescare la “follia” è del resto una improbabile commessa (Ilenia Pastorelli), ragazza di borgata, che gli trasmette un po’ dei suoi guai e molta della sua vitalità.
Vari livelli di età e vari livelli sociali “scrivono” l’autobiografia di una città che – mi dice Verdone – “sorride sempre meno e ringhia vieppiù, da un lato eterogenea per troppi stranieri spaesati e omologata nei suoi residui italiani”. E plebei, per lo più. Omologazione necessariamente verso il basso, notava Alberto Sordi proprio con Verdone nella loro ultima cena insieme, in un ristorante presso Cinecittà, compatendolo: per te “far ridere sarà sempre più difficile. E sai perché? Perché, caro Carlo, gli italiani hanno perso il senso del ridicolo”. Un’osservazione che Verdone ha ricordato ieri alla stampa e che era già uno dei punti salienti de La casa sopra i portici (Bompiani, 2012), storia della sua famiglia, le cui ultime parole paragonano sensazioni percepite nella casa dei genitori, “circondata dal suono delle campane di San Salvatore in Onda, di San Carlo ai Catinari, di San Paolo alla Regola, di Sant’Andrea della Valle”, e la casa della maturità, sul Gianicolo, raggiunta invece “dalla voce del Muezzin dalla Moschea sulla Salaria”.
Signor Verdone, come definisce l’Italia?
“Una società che ha perso la sua fisionomia”.
Una senegalese m’ha detto: se devo star male a Milano, posso tornare a Dakar”…
“Cappa di oppressione da guerre/terrorismo e crisi economica accomunano tutti”.
Computer e smartphone danno dipendenza, come le droghe. Senza di loro, poi, c’era lavoro quasi per tutti… E i tweet fanno credere a ognuno di aver qualcosa da dire.
“Raccontare è sempre più difficile. Nel dopoguerra, tra le macerie, il cinema italiano ha infatti trovato la forza di farlo, contribuendo a sollevare un popolo. Ora non si può far cinema allo stesso modo”.
Come lo si fa adesso?
”Consapevoli che il senso etico è andato perduto e che i valori vanno costantemente aggiornati: come i software!”.
Nel suo lavoro che cosa è cambiato?
“Una volta costruivo i film sui personaggi. Oggi cerco una storia, poi ci infilo i personaggi”.
In Benedetta follia uno smartphone vibrante origina un dialogo della vagina. Direi che non è una trovata sua, ma dell’altro sceneggiatore, Nicola Guaglianone Menotti.
“Infatti esitavo: questa scena poteva essere volgarissima. Non lo è per la bravura di Francesca Manzini [è lei l’insolita custodia dello smartphone vibrante – NdR] e per come l’operatore, Arnaldo Catinari, ha saputo inquadrarci”.
Il resto è la pagina peggiore della Roma (dell’Italia) odierna.
“Strozzinaggio e malavita endemica. Fin da bambino ho amato Ostia, dove mi portavano le suore dell’asilo e della scuola elementare, con la benzina per pulirci i piedi dal catrame che inquinava già allora le spiagge. Ma giro sempre volentieri lì, perché l’aria di Ostia, per me, resta magica. Che tristezza vedere questa che è una città, con trecentomila abitanti, ridotta a teatro di malavita…”.
… Italiana, a giudicare dai nomi.
“Non solo. Ogni tanto mi capita di vedere qualcuno – di un Paese che non dico – entrare e uscire dal carcere di Rebibbia. Gli ho chiesto: ma perché continui? Mi ha risposto: perché qui, dopo due mesi, sono fuori. E al tuo Paese? No, lì non uscirei più”.
Il suo personaggio in Benedetta follia ha un lavoro redditizio e una bella casa…
“… Ma è diventato grigio, noioso, verboso fino alla piaggeria verso la clientela dell’alto clero”.
A un certo punto però cambia.
“Perché non vuole più esistere, vuole vivere. E’ qualcosa che mi ripeto anch’io nei momenti di malinconia e che viene dalla Lettere a Lucilio di Seneca. Leggerne una per sera… che bene mi ha fatto. Più di una medicina”. (Da La Verità, 9 gennaio 2018)