Nel novero delle vie commerciali che si sono sviluppate nel corso dei secoli tra la Cina e l’Occidente, la cosiddetta “Via della Seta” è la più antica e storicamente più importante, con il suo reticolo di strade che si estende per oltre ottomila chilometri, che, dal Celeste Impero, continua attraverso l’Asia Centrale e il Medio Oriente sino a giungere in Europa. Il suo mito è legato a quei commerci di profumi, spezie esotiche e porcellane che fecero della Cina un luogo remoto, ma pieno di fascino, raccontato dal nostro Marco Polo in quel Milione (1298 ca.) che tutti conoscono di nome, sebbene poi quasi nessuno lo abbia mai letto.
Assai meno nota, seppur altrettanto importante, è l’altra “Via della Seta”, quella marittima. Grazie ad approfondite ricerche archeologiche, oggi sappiamo quanto la “Via della Seta Marittima” sia stata molto più che una rotta puramente commerciale. Infatti, oltre agli oggetti, si spostarono pure le genti e con loro nuove idee, conoscenze tecniche e filosofiche, nonché culti religiosi.
La “Nuova Via della Seta”
Per farsi una idea generica su tutto questo è possibile visitare fino al 28 gennaio 2018, nelle sale quattrocentesche di Palazzo Venezia, la mostra: Oriente incontra Occidente. La Via della Seta Marittima dal XIII al XVII secolo, in cui si presentano oltre 100 oggetti del periodo compreso tra la Dinastia Song (960 – 1279) fino alla tarda Epoca Qing (1644 – 1912). Essa si articola in quattro sezioni tematiche: “La Via della Seta”, “La Via delle Spezie e delle Porcellane”, “La Via delle Religioni” e “La Via delle Culture”, proponendo manufatti perlopiù non preziosissimi, ma che di sicuro possono fornire utili informazioni agli specialisti, ma anche positivamente suggestionare il pubblico di quei curiosi verso l’Oriente, che speriamo in Italia diventi sempre più numeroso, così da riuscire magari un giorno a far capire al nostro Popolo che la tradizione italiana nella orientalistica, sia per quanto concerne le collezioni sia per gli studi di settore, non ha rivali in Occidente.
La mostra si colloca nell’ambito del Memorandum d’Intesa sul Partenariato per la Promozione del Patrimonio Culturale siglato il 7 ottobre 2010 dai Ministri della Cultura di Cina e Italia, il quale prevede l’accordo di reciprocità per la realizzazione di mostre sulla cultura cinese in Italia, di cui questa è la quinta e ultima di quelle previste.
Gli scambi con la Cina sono da millenni – ormai si hanno prove concrete di contatti con l’Occidente risalenti all’Impero Romano – di vitale importanza culturale e politica. Non è un caso che pochi mesi fa il Presidente Cinese Xi Jinping abbia annunciato la volontà della sua Nazione di portare avanti iniziative di cooperazione internazionale a vari livelli e da lui denominati: “Una Cintura, una Via” (One Belt, One Road). In questo scenario l’Italia giocherà fortunatamente un ruolo da protagonista, essendo uno dei principali terminali di arrivo di questa “Nuova Via della Seta”.
Ripercorrendo la storia
Nel 1887, il geografo prussiano Ferdinand von Richthofen usò per la prima volta, nella sua opera Cina: Risultati dei miei viaggi e gli studi su essi basati (“China, Ergebnisse eigener Reisen und darauf gegründeter Studien”, 1877 – 1912, 5 voll.), il termine “Via della Seta”. Questa definizione guadagnò presto grande risonanza nel mondo accademico, stando a indicare tutti i commerci e le interazioni amichevoli tra Oriente e Occidente. Per converso, con “Via della Seta Marittima” si intende una autentica epopea del commercio che va dal II secolo a. C. alla seconda metà del XIX secolo, che si dipanava tra l’Oceano Pacifico Occidentale, l’Oceano Indiano e l’Oceano Atlantico.
Quasi ogni dinastia imperiale ha avuto le proprie strategie di gestione del commercio marittimo, chi con politiche di esportazione più “aggressive”, quelle dei Ming (1368 – 1644) e dei Qing, altre, segnatamente la luminosa Stirpe dei Tang (618 – 907), che non erano soltanto interessate a vendere, bensì a ricevere pure i prodotti dall’estero. A tal proposito, in Epoca Yuan (1271 – 1368), con la cosmopolita cultura mongola che si impossessò del potere, vi fu un notevole aumento nel processo di interazione culturale tra la Cina e il resto del mondo, dando largo spazio alla immissione sul territorio nazionale di alcune grandi religioni come il Cristianesimo, l’Induismo e l’Islam. Da sempre i mongoli hanno tentato, e in qualche misura riuscendoci, di costituire un grande impero nello spazio vitale, mutuando una terminologia cara al geopolitologo tedesco Karl Haushofer, della Eurasia. La vocazione prettamente sciamanica dei mongoli fece sì che non vi fosse un interesse particolare nella imposizione di una Religione di Stato, favorendo altresì una inclusione sistematica di fedi, costumi e conoscenze, contribuendo a costruire un quadro multiculturale ancor più che multietnico, caratteristica invece della Cina contemporanea.
La Cina sta scoprendo la archeologia subacquea
Chi ha competenze specifiche in merito all’arte estremo orientale sa bene come sia cosa recente la presa di coscienza da parte di queste popolazioni sulla necessità di preservare sistematicamente il proprio patrimonio culturale. Ovviamente, gli italiani americanizzati di oggi, nulla sapendo della loro storia, ignorano il fatto che, per quanto concerne la disciplina del restauro, fu per l’appunto l’Italia a essere presa quale modello da seguire da parte delle Nazioni di quel continente: ricordiamoci che per restaurare il celeberrimo Esercito di Terracotta di Xi’an vennero chiamati in qualità di consulenti dei rappresentanti dell’ICR (Istituto Centrale del Restauro) di Roma!
Sia come sia, l’aspetto sicuramente di maggiore interesse in questa mostra riguarda il rapporto tra il Celeste Impero e il mare, che trova la sua epitome nel Nan’ao One: un relitto mercantile di legno che è stato scoperto al largo della costa dell’Isola Nan’ao di Shantou, provincia del Guangdong. Sebbene questa enorme Nazione sia da sempre considerata una delle principali “tellurocrazie”, riprendendo nuovamente una definizione di Haushofer, la Cina è stata anche una significativa potenza navale. Ecco, allora, che la esposizione in corso a Roma consente di scoprire la storia della mitica flotta mercantile di Zheng He, che fu la più grande del pianeta durante il XV secolo, esportando principalmente seta e porcellana.
Navi talora di dimensioni colossali, costruite in prevalenza sulle zone costiere cinesi orientali; di grande importanza fu, ad esempio, il Cantiere di Longjiang, situato a Nordovest di Nanjing (Nanchino), attivo durante tutto il Regno dei Ming. Le navi provenienti dalla Cina solcarono per secoli gli oceani, e, va da sé, che numerosi furono gli affondamenti, cosa che rende le coste del Paese una vasta miniera per ritrovamenti di vario tipo. Fortuna vuole, che la recente tendenza da parte dei cinesi a salvaguardare il proprio passato non abbia solo portato, come detto, alla scoperta del restauro, ma parimenti di una forma di scavo – anche qui noi italiani, per scontati motivi storico-geografici, siamo degli assoluti maestri – nota come “Archeologia Subacquea”. Ragion per cui, il Governo di Pechino sta investendo delle risorse sulla ricerca di relitti custoditi sui fondali cinesi. I risultati di questa saggia politica di tutela si stanno dimostrando notevoli, come nel caso del Nan’ao One: la prima nave a essere ufficialmente studiata e portata alla luce.
Nel maggio 2007, un gruppo di pescatori di Nan’ao scoprì un lotto di porcellane mentre lavorava in quella zona. Gli archeologi hanno poi constatato che i manufatti appartenevano alla tarda Dinastia Ming. Nel giugno 2007, l’Istituto Provinciale di Reliquie Culturali e Archeologiche del Guangdong ha inviato del personale a immergersi sul sito. Le indagini perlustrative appurarono subito che il relitto si trovava sul fondale a 27 metri di profondità, in discrete condizioni di preservazione. Lo scavo archeologico è iniziato nel 2010 ed è stato completato nel 2012. Circa ventisettemila reperti sono stati recuperati, principalmente porcellane “bianche e blu” della Fornace di Zhangzhou di Fujian e da quella Jingdezhen di Jiangxi. Testimonianza più inequivocabile della prosperità commerciale della “Via della Seta Marittima” non si poteva avere.
Non capolavori, eppure il dato si può trovare
Buona parte del nostro scritto abbiamo deciso di dedicarla alla “spiegazione” della mostra, piuttosto che nel soffermarci su determinate opere, cosa che faremo comunque ora. Il motivo di questa scelta è duplice. Da una parte, l’oggettiva non presenza di oggetti di pregio; dall’altra, cosa poi ancora più importante, la necessità di sottolineare che, malgrado non si tratti di una esposizione che presenti dei capolavori, essa offre ugualmente la preziosa opportunità di accorgersi di quello che come studiosi di estrazione accademica amiamo definire dato. Sarebbe a dire, una serie di informazioni, le quali, se analizzate, permettono di ottenere una prospettiva approfondita su di un determinato argomento: nel nostro caso la ricchezza commerciale degli scambi tra la Cina e l’Occidente tramite il vettore marittimo.
Ciò detto, qualche osservazione su alcuni dei pezzi in mostra è dovuta. Quello che è a nostro avviso il più suggestivo, nonché originale, è un Boccale in argento con manico a forma di dragone (XIX sec.), recante scene tratte dall’Opera Tradizionale Cinese (la storia: “Tre eroi che combattono Lü Bu”). Colpisce di questo manufatto non solo la sua estraneità al contesto cinese, giacché gli alcolici nel Paese di Mezzo non si bevono certo in ampi boccali, ma pure lo stupendo manico, la cui forma è quella tipica sinuosa del dragone simbolo della stirpe di origine mancese dei Qing. Nondimeno, sono i reperti afferenti alle culture straniere quelli di vero interesse.
Il Cristianesimo ebbe una certa diffusione in Epoca Tang, grazie alla corrente nestoriana, anche essa di provenienza asiatica. Quando i mongoli si impossessarono della Nazione, lo ribattezzarono: “La Religione della Croce” (十字教, Shizijiao). A documentare la presenza cristiana sono qui esposti un curioso vaso Vaso blu e bianco con il disegno della crocifissione di Cristo (Dinastia, Qing, Periodo Kangxi, 1662 – 1722) e una Lapide Cristiana (Dinastia Yuan).
Il sincretismo che ha animato la Cina sino all’avvento di quella che sogliamo definire la “Cesura Maoista” non poteva non includere anche la culla della spiritualità asiatica: l’India. Segnaliamo quindi un raro Elemento murale con figura di Garuda (Dinastia Yuan). L’Induismo penetrò in Cina in Epoca Han (206 a. C. – 220 d. C.), all’incirca nello stesso periodo del Buddhismo. La scienza e le arti indiane influenzarono molto la Cina antica, conoscendo in Epoca Yuan un momento florido, segnatamente in città portuali come Quanzhou.
“La Via delle Religioni” narrata in questa mostra si conclude con l’Islam, che giunse in Cina dall’Asia Occidentale e Centrale a metà del VII secolo, diffondendosi gradualmente sino ai nostri giorni. Nei centri portuali dediti al commercio del Guandong, di Quanzhou e di Ningbo, i mercanti musulmani fecero costruire numerose e belle moschee, come quella di Huaisheng (Mausoleo dei Saggi Musulmani a Guangzhou), di inizio Periodo Tang, uno dei mausolei islamici più antichi al mondo, ove è sepolto il predicatore Sa’d ibn Abi Waqqas (ca. 595 – ca. 674). Insieme a quella della Gru di Yangzhou, quella della Fenice di Hangzhou e quella della Purezza di Quanzhou, la Moschea di Huaisheng è ritenuta una della quattro principali di tutta la Cina. Pertanto, la Lapide islamica (Dinastia Yuan) in esposizione è solo uno dei numerosi esempi della diffusione di questa Fede nel Paese.
Per conoscere il lato cosmopolita del Celeste Impero
In conclusione, non ci sentiamo di definire questa mostra come esclusivamente apprezzabile per gli orientalisti. Vero è, che l’occhio non sarà probabilmente rapito da quello che vedrà negli ambienti al Piano Terra di Palazzo Venezia. Eppure, le informazioni, insieme ad alcuni dei reperti che compongono la esposizione, possono, anzi devono, sollecitare a rendersi conto che quella cinese non è mai stata una società chiusa e diffidente verso l’estraneo. Tali storture si sono generate in quei quartieri-ghetto delle città occidentali che in modo sin troppo abitudinario chiamiamo Chinatown. È innegabile, e lo si capisce bene dai contenuti dell’evento romano, che sia stata la spinta commerciale a rendere cosmopolita questa enorme Nazione. Purtuttavia, essa è da secoli un variegato universo di lingue ed etnie, ove le persecuzioni razziali sono, queste sì, aliene a una cultura che ha visto due delle sue fondamentali dinastie venire proprio dall’estero: i mongoli Yuan e i mancesi Qing. E come stata possibile una così vasta integrazione? Semplice, è quello che avviene da sempre in Cina, dove i popoli vengono assimilati o, per dirla con un lessico “tecnico”, sinizzati.