A mettergli la voglia di fare lo scrittore furono i libri di Jules Romain e di Robert Brasillach. E nel suo romanzo più bello, A Dio piacendo, che è in parte una storia della sua famiglia, non mancano i ricordi di una giovanile ammirazione per l’autore dei Sette colori e per il gruppo raccolto intorno alla rivista “Je suis partout”. Poi, con l’andare degli anni, sarebbe andato assomigliando sempre più, nella sua prosa a volte un po’ ridondante, ad Alphonse de Chateaubriand, cui avrebbe dedicato una compiacente e compiaciuta biografia, Il mio ultimo pensiero sarà per voi. Nato nel 1925, figlio di un ambasciatore e di una nobildonna, cresciuto in una famiglia della nobiltà di toga, il conte Jean d’Ormesson conobbe un’adolescenza e una giovinezza privilegiate e furono anche le conoscenze del padre diplomatico a condurlo, dopo un periodo d’insegnamento nei licei, a un prestigioso incarico all’Unesco. Ma sono state solo le sue straordinarie qualità di scrittura a garantirgli una brillante carriera nel giornalismo e nella letteratura, che lo condusse alla direzione del “Figaro”, negli anni Settanta, e all’ingresso nell’Académie Française ad appena quarantotto anni, caso senza precedenti nella storia della veneranda istituzione. All’interno di essa contribuì a infrangere un altro tabù patrocinando l’ingresso al suo interno di Marguerite Yourcenar, prima donna cooptata fra gli “immortali”: l’autrice delle celeberrime Memorie di Adriano, ma anche di un romanzo come Il colpo di grazia nel quale, come ha scritto Giorgio Galli, “l’esoterismo si incrocia con la cultura di destra, con l’interesse per i corpi franchi che combattono il comunismo nel Baltico”.
Conservatore liberale, affascinante tombeur de femmes, il naso di Aron, gli occhi di Paul Newman (o, secondo altri, di Mireille Mathieu), d’Ormesson appartiene a quella felice categoria di persone che hanno saputo fare buon viso alla fortuna e guadagnarsi la stima di tutti, come testimonia l’unanime cordoglio dei politici francesi. Del resto fu buon amico e fedele sostenitore di Giscard d’Estaing, ma Mitterrand l’ultima intervista prima di lasciare l’Eliseo la chiese a lui. I salotti buoni lo coccolarono, e a volte lo fagocitarono, come quando, secondo Alain de Benoist, il desiderio di compiacerli l’indusse a sollecitare l’allontanamento dal supplemento settimanale del “Figaro” delle firme della Nouvelle Droite. Dei quaranta volumi di questo immortale non tutto rimarrà tale; ma certe pagine di A Dio piacendo o di Le bonheur à San Miniato basterebbero comunque a giustificarne la fama. Al di là degli elogi di circostanza, il giudizio più lucido su di lui lo ha formulato forse Jacques Julliard quando nel suo necrologio sul “Figaro” lo ha definito un uomo della Restaurazione, sostenendo che, pieno di contraddizioni, d’Ormesson “si sarebbe riconosciuto a meraviglia in quel periodo storico in cui un uomo poteva essere al tempo stesso scrittore, politico e giornalista”.
È morto convinto di essere un fratello minore di Chateaubriand. E pazienza se per i maligni scorreva in lui anche il sangue di un nipotino di Talleyrand: sono i rischi che si corrono, quando si vuole essere “partout”, dappertutto. Ma non nel senso che piaceva a Robert Brasillach.