Qualche giorno fa, esattamente il 19 ottobre, ricorreva il trentennale del Black Monday, quando la borsa di New York affrontò una pesantissima caduta degli indici azionari; fu l’episodio che pose fine all’epoca d’oro dei “leoni della finanza”, immortalati nel celebre film Wall Street di Oliver Stone, con l’inizio di una nuova èra nel mondo della speculazione finanziaria. Questa ricorrenza, tuttavia, è trascorsa nel totale silenzio dei media, mentre una seria riflessione sul tema avrebbe potuto evidenziare elementi di grande interesse in relazione all’attuale congiuntura.
Il tonfo del 1987, a differenza di quello del 2008, non precipitò in una più ampia crisi economica su scala globale, ma venne rapidamente assorbito, grazie agli interventi della Federale Reserve – che operò direttamente sui mercati e, ulteriormente, incalzò le grandi banche affinché estendessero la liquidità alle imprese. Ciò non significa però che gli effetti di quel tracollo fossero transitori ovvero rappresentassero solo un breve malfunzionamento in un sistema altrimenti sano; infatti, quel cedimento – e la risposta che ad esso diedero le autorità politiche e monetarie – fu il primo effetto di un cambio di paradigma che porterà alle tempeste finanziarie dei decenni successivi.
Il periodo che culminò nel Black Monday costituì un momento di transizione nell’economia e nel sistema finanziario mondiale: interi settori dell’industria statunitense iniziarono ad essere colpiti dal regime di alti tassi di interesse, su iniziativa di Paul Volcker – presidente della Federal Reserve dal 1979 – una politica approfondita nei primi anni dell’amministrazione Reagan. Si trattò di un processo replicato in tutto il mondo, motivato dai timori dell’inflazione; fu così, che l’economia industriale, eretta nel dopoguerra con fatica e sudore, fu messa in ginocchio poiché si era deciso che da qual momento bisognava arricchirsi gonfiando bolle speculative. E andassero al diavolo lavoratori e famiglie!
In parallelo al progressivo smantellamento dell’industria manifatturiera, le norme poste a freno dei “mercati” furono eliminate per liberare la strada all’accumulazione di profitti attraverso operazioni puramente finanziarie.
Un altro fattore che contribuì al collasso fu l’introduzione di un trading computerizzato in cui si effettuano migliaia di operazioni in modalità automatica, in base a modelli matematici sviluppati a priori.
Il giorno seguente il lunedì nero, prima della riapertura dei mercati, il nuovo presidente della Fed Alan Greenspan rilasciò una dichiarazione destinata a diventare la base di ogni successivo intervento di politica monetaria in Occidente: affermò, infatti, la piena disponibilità dell’istituzione di cui era a capo a servire come fonte di liquidità inesauribile a sostegno del sistema finanziario.
Da allora, pubblicamente le banche centrali – e le autorità finanziarie in genere – cercano di ritrarre se stesse come supremi controllori dell’economia capitalista e della finanza speculativa, ma dietro le quinte emerge un quadro molto diverso: quando divampò la crisi del 2008, la politica messa in campo fu quella di totale appoggio alle grandi banche sul punto del collasso – e i massicci salvataggi hanno sostenuto i mercati attraverso l’acquisto di asset finanziari, quantitative easing e bassi tassi di interesse. Il risultato non è stato il ripristino della crescita economica, né la creazione di una stabilità finanziaria, ma la formazione di nuove, enormi bolle speculative.
Tuttavia, mentre il tasso ufficiale di disoccupazione accenna a diminuire, i salari ristagnano (o diminuiscono) e l’inflazione rimane ostinatamente sotto gli obiettivi dichiarati dalle banche centrali: questa è la prova del fatto che il mercato del lavoro, nel frattempo, ha sofferto una trasformazione radicale in tutte le economie avanzate, con la sostituzione di posti di lavoro a tempo pieno e indeterminato con lavori a tempo parziale, precari e sottopagati.