Al di là di ogni dibattito sulla crisi della istituzione democratica e del suo corretto funzionamento si pone questo libro, che, oltrepassando i limiti interpretativi esistenti, apre squarci prospettici in grado di fornire una visione utile e decisamente controcorrente del “fenomeno democratico”, considerandolo come un sistema di Potere non solo imperfetto, ma per sua natura totalmente artificiale, alieno dalla millenaria esperienza del Genere Umano, quindi intrinsecamente per esso nocivo. Parliamo di una autentica illusione di massa, dotata però di una sua potente realtà, maschera di un sistema politico transnazionale assai concreto, il quale da molto prima di quanto comunemente si crede sta cercando e, cosa ancor più grave, riuscendo ad accreditarsi come unico e senza alternative, grazie allo slogan supinamente accettato in un Occidente moralmente abulico che: “Viviamo nel migliore dei mondi possibili”, mutuando con una certa imprecisione una delle celebri affermazioni del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646 – 1716). Ci riferiamo per l’appunto alla democrazia, termine di per sé chiaro nella etimologia, quanto astratto nella sua attuazione, la quale si è praticamente sempre rivelata in una serie di entità governative fini a se stesse, che sopravvivono tramite una opera di sfruttamento e inganno senza precedenti durante tutto il corso della Era Moderna. Questa prospettiva divergente dal pensiero dominante è accuratamente spiegata e analizzata nel testo di Renzo Giorgetti: Demofagia.
La buona Letteratura ha da sempre congenita la abilità di anticipare, prevedere il mondo di domani. Ecco, allora, che un romanzo di eccellente qualità – più nei contenuti, che nel linguaggio a essere sinceri – come Fahrenheit 451 (1953) di Ray Bradbury è tuttora un perfetto specchio della nostra realtà, poiché è nella distopia che si trovano le maggiori verità. In esso si racconta come delle persone, in una epoca in cui la carta si brucia, ricordano ciascuno un libro a memoria, così da salvare la Umanità. È necessario capire che non è più il tempo dei carri armati nelle piazze, adesso le dittature puntano dritte al cervello. Differentemente dalla opera di Bradbury, oggi i libri non vengono dati in pasto alle fiamme, bensì sono soppiantati dal virtuale, che sia televisivo o informatico; tutto viaggia in continui messaggi atti a indottrinare la popolazione, alla quale viene fatto credere di avere in mano la propria sorte… nulla di più falso.
Giorgetti, in questo volume, disserta su come le sedicenti democrazie si “nutrano del Popolo”, essendo regimi sostanzialmente nichilisti che si auto-alimentano, il cui combustibile, qui ritorna latamente il collegamento con Bradbury, è la distruzione della coscienza individuale. Il volume si apre con una dichiarazione abbastanza ardita, affermando come probabilmente non vi sia ormai nulla da dire sulla democrazia, sui mali che crea nelle società. Ciononostante, viene detto, e siamo d’accordo, che non sappiamo davvero tutto. Ragion per cui, “Se così dettagliatamente è stata descritta la maschera, resta ancora molto da dire sul volto” (19).
Con una scrittura assertiva, seppur gradevole, Giorgetti si avvale di varie fonti per parlare di un sistema rotto: “[…] a questa dimensione mitica fa riscontro qualcosa di molto più misero, una pratica di gestione di potere […], che pur non essendo totalmente fasulla rimane comunque, nei suoi principi, assolutamente irrealizzabile” (23). Il suo ragionamento risulta sostanzialmente coerente, ben argomentato nello stigmatizzare la maniera in cui la democrazia sia in pratica la più grande menzogna mai elaborata dall’uomo. Anche qui, niente di nuovo. Nondimeno, la forza di questo testo non sta nella originalità, quanto nelle riflessioni, che sono puntuali e sostenute da riferimenti che sono sistematici, perciò validi da un punto di vista prettamente critico. In poche parole, lo Studio non si può limitare semplicemente alla singola idea, ma deve altresì dare prova di saper ragionare su di un determinato concetto, e l’autore si dimostra alla altezza di tale gravoso compito, soprattutto in un periodo come quello odierno, ove la speculazione intellettuale non è più un elemento “immanente” nella scrittura, ma, al contrario, quasi una sorta di miraggio irraggiungibile. Per tale motivo, Demofagia si attesta quale un lavoro quanto mai tempestivo, potremmo persino dire prezioso nel confermare la giustezza, e non semplicisticamente la legittimità, del dissenso. Ovvero, la differenza tra puerili proteste e denunce articolate. Al momento, ne abbiamo fin troppe delle prime, e quasi nessuna delle seconde.
Definiamola allora questa parola dall’aspetto tanto oscuro, seppur dal significato rivelatore: la “demofagia” è il sistema di potere che si nutre di esseri umani. Per “nutrimento” si intende la sottrazione di risorse materiali ed economiche, così come del tempo, del lavoro e, in sintesi, della vita stessa delle persone ad essa soggetti. Il primo utilizzo del termine, in un contesto di carattere politico, è ascrivibile allo studioso cileno Fernando González Celis, che nei suoi scritti, segnatamente in un articolo intitolato: Reflexiones sobre la democracia (1989), segnalò le carenze terminologiche nella comune definizione di “democrazia”, inquadrandone la intrinseca ambigua natura: “un ordine politico utopico in teoria, caotico in pratica e sempre conflittuale” (14).
La democrazia si nutre quindi del Popolo, essendo essa, nelle parole di Giorgetti: “[…] un sistema di potere composto, tra gli altri, da politici e intellettuali, e che […] cerca di operare tutti quei cambiamenti utili alla produzione di un nuovo tipo umano, malleabile, in perenne disfacimento, senza ordine e unità interiori, paralizzato, alieno dalla realtà” (14). Ovviamente, tale posizione si inquadra, almeno sotto alcuni aspetti, in una prospettiva a noi assai familiare. Vale a dire, in quel Pensiero Tradizionale che rimane l’unico efficace antidoto contro la illusione democratica. I tanti intellettuali che da alcune decadi si sono asserviti al Pensiero Unico globale, ottenendo in cambio premi e cattedre, hanno in modo complice elaborato una estesa rete di pubblicazioni e analisi, in cui sono esclusi tutti quei filosofi e scrittori che potrebbero in qualche misura mettere in discussione il dogma democratico. La cosa grottesca, e il libro di cui stiamo parlando lo dimostra chiaramente, è che questo autentico credo laico ha i piedi di argilla, smontarlo risulta facile. Ecco, perciò, che entra in gioco la manipolazione dei media, affinché esso possa sopravvivere.
La “Finzione Democratica” collassa davanti alla Storia, la quale ha essenzialmente visto una sola forma di governo: la monarchia. La contrapposizione tra il Re e i democraticamente eletti è uno degli elementi di maggior interesse che possiamo trovare nelle riflessioni del filosofo tedesco Hans-Hermann Hoppe. Quelli che egli acutamente definisce i “gestori transitori” (21) utilizzano la delega ottenuta dal popolo con il voto attraverso un meccanismo di deresponsabilizzazione personale, perseguendo una politica sincronica, il cui scopo ultimo è precipuamente l’ottenimento del consenso. Spesso, sia in discussioni pubbliche che in determinati scritti, siamo anche noi intervenuti su questa fondamentale distinzione tra principio regale e precetti democratico-repubblicani. Oggigiorno, l’“homo videns” su cui ragionò Giovanni Sartori è incapace di sviluppare la pur minima opinione personale, giacché deprivato di qualsivoglia discernimento. Facciamo un esempio, cosa è stato il governo dei Medici a Firenze? Con gli attuali canoni democratici, la loro Signoria, che ha segnato uno dei picchi nella storia del mondo, fu una dittatura. Si potrebbe poi citare il grande geopolitologo e orientalista tedesco Karl Haushofer (1869 – 1946), per il quale la forma di governo democratica altro non è che una pura invenzione delle talassocrazie anglosassoni. Del resto, chi ha coniato il motto: “esportare la democrazia”? Ci è parso chiaro, durante la lettura del testo di Giorgetti, che costui è riuscito a essere onesto nel non arrogarsi la originalità nell’aver descritto la “maschera”, limitandosi a portare un lodevole contributo filosofico-politico nel disegnare i contorni di quel pericoloso “volto”.
La democrazia non ha, differentemente da quello che si è fatto credere dal ’45 in poi, regole. Essa si basa essenzialmente sul primato della economia sulla politica; ovvero quella “demonia” reiteratamente denunciata da Julius Evola. Giorgetti, nell’affrontare questo aspetto nodale dell’anima intima e perversa dell’assunto democratico, ricorre a ottime fonti; tra tutte le posizioni antiusura mondialista dell’americano, nonché italiano e fascista di elezione, Ezra Pound (1885 – 1972), il quale, come riporta l’autore in una nota del suo volume, sintetizza perfettamente il problema con queste parole: “Il sistema democratico è di questa natura: due o più partiti si presentano al pubblico, tutti al comando dell’usurocrazia” (Lavoro e usura, Scheiwiller, Milano, 1996, p. 82). Con riferimento a Pound, ci sentiamo di dire che forse sarebbe stato opportuno, così da attualizzare il pensiero di questo grande scrittore e intellettuale, di avvalersi degli studi Giano Accame, probabilmente il miglior esegeta a livello internazionale del “Pound politico”. Nell’abile utilizzo di un apparato bibliografico valido, quanto misconosciuto nella vulgata comune di tanti sedicenti eruditi e giornalisti compiacenti, riteniamo che riportare le riflessioni di Accame su Pound avrebbe ampliato un ragionamento di per sé già abbastanza esteso, che arriva nel III capitolo (intitolato Album) a toccare un argomentato assai suggestivo come quello sul modo in cui l’arte abbia nei secoli rappresentato il lavoro e la moralità. Nuovamente, anche qui i riferimenti sono a nostro avviso corretti. In questo caso, infatti, non ci si poteva esimere dal rivolgersi a una figura di primo piano come quella del francese René Guénon (1886 – 1951), che Giorgetti ricorda per i suoi contributi sulla analisi dei simboli, dunque su come l’arte non sia quel “carnevalesco” fatto di superficie di cui parlò Michail Michailovič Bachtin (1895 – 1975), ma un qualcosa di profondamente allegorico, che non può essere compreso, come invece asseriva il blasonato critico russo, saltando a piè pari il Medioevo cristiano. Eppure, quanto andavano di moda i suoi libri nelle università nostrane sino a una quindicina di anni fa? Ciò non dovrebbe essere una sorpresa, l’Accademia da tempo vive di assenso, agognando prebende varie, allargandosi di continuo tra ossequiosi discepoli e collaboratori obbedienti, alla ricerca del numero, della quantità; tutto un mondo fatto per essere parte di una maggioranza, che è, come ci rammenta proprio Guénon: “l’espressione dell’incompetenza” (27).
In conclusione, Giorgetti riesce non soltanto a spiegare, bensì a comprovare una tesi che al momento viene giudicata completamente eversiva da governanti ed elettori; ovvero, che la democrazia altro non è che una espressione politica sempre in crisi. Accogliamo con vivo apprezzamento un libro coraggioso, composto, come detto, di una lodevole tessitura nella gestione delle fonti bibliografiche. Condividiamo altresì la opinione dell’autore che sia meglio formulare tali idee ora, non indugiando ulteriormente, poiché: “Un giorno sarà ancora possibile esprimere concetti complessi? Francamente non crediamo, quindi sfruttiamo l’occasione, finché è ancora possibile” (9). Chi vota pensa di esercitare un diritto, non accorgendosi di essere un suddito che avalla un regno non manifesto, potentemente strutturato nell’ombra. Domandiamoci quindi se la democrazia possa essere in buona fede, il frutto di benevoli illusioni. No, essa si sostiene con “inganni dolosi”, perpetrati nei confronti di cittadini colpevolmente ignari e distratti, i quali ne sono il nutrimento. Allora, se sudditi bisogna essere, meglio il Re; almeno lui è direttamente responsabile, e la Storia ci insegna che spesso risponde con la propria testa!
*Demofagia di Renzo Giorgetti (Chieti, Solfanelli, 2017)